Inclusività, accettazione e diversità, sono queste le parole che vivono dietro il Pride, che nel tempo di un mese festeggia l’orgoglio di chi spesso viene dimenticato in fondo alla lista dell’anormalità. Una comunità, quella LGBTQ+, abituata a battersi per il raggiungimento di diritti e riconoscimenti, che sceglie il mese di giugno non a caso, ma in ricordo dei moti di Stonewall, uno dei primi locali della queer culture di New York, che vide la nascita, tra la notte del 27 e del 28 giugno 1969 di un movimento di resistenza, creatosi dopo l’irruzione delle forze armate e la successiva aggressione. Da allora, ogni anno, si svolgono gli eventi organizzati da sostenitori esterni che sono migliaia e tra questi spicca la vicinanza di brand e fashion institution, che da più di quarant’anni si muovono a sostegno di associazioni e iniziative queer.

L’orgoglio LGBTQ+ ha sempre trovato nell’abito, a volte inteso come costume sociale, la capacità di esprimere con fierezza la propria identità e negli anni si è consolidato una sorta di dresscode immediatamente riconoscibile: pailletes, stampe ottiche, tinte esuberanti, sono solo alcune delle componenti della queer culture e gli immancabili protagonisti del Pride Month. Decori e applicazioni che non sono mai mancati sugli stage di show e fashion event, i quali annoverano tra i membri diverse figure che hanno ricoperto un ruolo importante per la comunità, dalla battaglia per i diritti sociali all’abbattimento del gender gap.

Definire in una time-line precisa la storia della moda-queer non è impresa da poco, essa ritrova il suo principio nei lontani anni ’20. Dalla narrazione estetica portata avanti dalle prime donne lavoratrici che introdussero nel guardaroba capi maschili adattandoli alle proprie forme, costruendo una nuova immagine androgina, che per la prima volta si apriva al binarismo di genere attingendo al no-sex del workwear. Successivamente, nei primi anni ’70 la queer culture esce allo scoperto dopo essersi dovuta nascondere per più di vent’anni e in America diventa protagonista di eccessi e libertà. Sono gli anni delle drag di New York, dei loro secret party nei nightclub di provincia, dove l’intera comunità si riuniva per omaggiare il Pride con la moda, la danza, e la musica. Una vita notturna, al riparo da pregiudizi e sguardi indiscreti, che portò Vivienne Westwood e Jean- Paul Gaultier a divenire i principali supporter di quella espressività, con collezioni tributo apparse anche indosso ad icone queer come Madonna. Fu proprio quest’ultima, con le sue canzoni provocatorie, che miravano a smuove il senso comune, a far danzare la generazione 80s sotto il segno dell’inclusione: si diceva che le sue tracce rappresentavano il queering e che dietro il ritmo pop si nascondeva la sua vicinanza alle tematiche LGBTQ+. C’è chi lesse il ritornello di “Like a Virgin” come un omaggio all’età dell’identificazione sessuale. Un motivo poi ripreso da altre icone della musica come Cher e David Bowie, sul quale quest’ultimo costruì il personaggio di Ziggy Sturdust.

A questi e al loro progressismo si aggiunse Stephen Sprouse nel 1983, quando fece sfilare la prima modella transessuale, Teri Toye, davanti al pubblico conservatore del Ritz. Un debutto che portò la giovane a collaborare con Chanel anni dopo, proprio in quell’albergo dove a lungo abitò colei che per prima intuì nella moda uno strumento di emancipazione sociale. Al contrario, Jean Paul Gaultier con la sua SS ’83 annulla le convenzioni del guardaroba maschile rendendolo più femminile, leggero, aggraziato, grazie a gonne top cut-out che guardavano all’uomo del futuro, più fluid che mai. Fu il solo a capire che una giacca ed una cravatta potessero convivere sopra ad una gonna senza che i due simboli del guardaroba maschile perdessero di virilità e la collezione SS ’19 ne fu un ulteriore dimostrazione. Giungendo ai 2000, il motivo sociale queer cresce e muta in un “diritto ad esistere ed apparire”, come disse Lady Gaga, che nei look di Alexander McQueen reinterpretò i costumi del queer clubbing americano del 1980, tra abiti multidimensionali e accessori fetish. E sono quei look ad essere inclusi per la prima volta, nel 2013, da Valerie Steele, direttrice del Fashion Institute of Technology, in un museo che costruiva un dialogo tra moda e queer culture con un libro dedicato, anche questo primo nel suo genere, nel quale si ripercorre il rapporto tra abito e identità sessuale dai primi del ‘900 londinese, con la nascita dei mollies, fino ad arrivare all’America del presente.

Ashleigh Good e Kati Nescher in abito da sposa, finale Chanel SS ’13

Un anno prima, nel 2012, nella collezione SS ’13 di Chanel apparirono la passerella le due modelle Ashleigh Good e Kati Nescher in abito da sposa, mano nella mano, a simboleggiare il sostegno della maison alla nozze tra persone dello stesso sesso di cui si parlava in Francia, quando il governo stava per legalizzarne il matrimonio. Nel 2017, Vogue Paris mette in cover Valentina Sampaio, modella transessuale. È il primo caso nella storia del magazine e con il titolo “La beauté transgenre” segna un nuovo capitolo per la moda, la sessualità e l’inclusività, servendosi di una comunicazione esplicita che non si nasconde dietro la normativa sociale. È sempre di casa Vogue, un altro traguardo, quello di aver ritratto a dicembre di due anni fa, Harry Styles in un long dress e giacca di Gucci. L’edizione americana della publishing house usò abiti di collezioni womanswear per vestire il cantante in uno shooting che si soffermava sulla contemporanea concezione di sessualità fluida, chiamando ad interpretare il tema proprio Styles, performer rivale del normcore e aperto sostenitore della comunità queer.

Louis Vuitton men SS ’19

Nel 2019, sul calendario ufficiale di New York si legge un nuovo nome, quello di Pierre Davis, primo designer transessuale ad essere supportato dal Council of Fashion Designers of America, la quale si unì alle parole del designer che disse: “Mi sento parte di un futuro che non giudica per chi siamo, ma per il messaggio che i nostri abiti portano”. L’ultima dichiarazione di vicinanza alla queer comunity è stato lo show di Louis Vuitton man SS ’19, al debutto della nuova direzione creativa affidata a Virgil Abloh. Uno stage lungo più di 400 metri tinto di tutti i colori è il simbolo più moderno dell’incontro tra moda e Pride, in una collezione intitolata “Color Therapy”, il cui nome richiama alla sensibilizzazione di tematiche sessuali, rilette in una terapia collettiva per l’accettazione di se stessi come diversi.

E dopo battaglie vinte e traguardi raggiunti, la moda non interrompe il suo assedio alla eteronormatività e stereotipo dopo pregiudizio abbatte la distanza tre genere e identità. Così, in una linea del tempo dalla complessa continuità, l’orgoglio non smette di risuonare, come una festa che non dura solo un mese, lungo le vie delle capitali internazionali che vestite di tutto punto, si uniscono nel grido: “Be proud, be pride”.