“Che suono ha il denaro?” si domanda Brian Cox alias Logan Roy in uno dei primi episodi della pluripremiata serie “Succession” che narra l’ascesa del miliardario Rupert Murdoch ed è a questo quesito che lo stesso protagonista non sa rispondere. Probabilmente, perché una risposta non c’è. È proprio nel silenzio e nell’assenza di eccessi (apparenti) la soluzione. Un lusso pacato che non si esibisce e del quale non si parla, rinominato dalla nuova generazione Quiet Luxury e manifestato con il totale anonimato del proprio abito.

Il Quiet Luxury è gemello dell’Old Money (ammiratore del benessere delle storiche famiglie europee), ma da esso si diversifica per il suo stampo moderno e minimale, come le sue regole. Queste ultime sono poche e basilari, non prevedono revival nostalgici, ma solo sporadici richiami ai primissimi 2000 e sono loro il segreto dietro il successo del Quiet Luxury: nessun logo riconoscibile a comunicare provenienza e costo, rigorose tinte unite, preferibilmente neutre, nessuna decorazione ed una shape lineare. Un’estetica economica ripetitiva, basica e per questo anonima che, come riporta l’Economist, si può sintetizzare nell’immagine di una donna benestante, annoiata dagli eccessi della propria quotidianità, che si rifugia nella pulizia visiva della sua immagine.

È anche il cinema a divulgare questa immagine, complice di aver creato un’ideale apparentemente raggiungibile. Primo tra tutti il lavoro della costume designer della serie “Succesion” Michelle Matlan, che lavorando sul costume del personaggio di Kendall Roy, il secondogenito di Roy, decide di fargli indossare un semplice baseball cap. All’apparenza comune, grigio e senza scritte, ma dopo uno sguardo più attento si rivela essere firmato Loro Piana in pregiata lana. Una mossa astuta che inganna facilmente un ignaro spettatore, ma non la community di TikTok, la quale recepisce il messaggio e replica il look in serie offrendo una reinterpretazione più accessibile, seppure alimentando così il sogno del “vorrei ma non posso”.

Superando il piccolo schermo, però, questa tendenza all’understatement non solo imita l’immagine dei miliardari americani come Zuckerberg e le sue maglie basiche di Brunello Cucinelli, ma si afferma come stratagemma di comunicazione. A dimostrarne l’efficacia è proprio Gwyneth Paltrow e i suoi completi indossati nel processo che l’ha vista coinvolta nei mesi scorsi. Non semplicemente abiti, ma costumi di scena studiati come se l’attrice dovesse recitare in un legal drama americano, dove non importa la vicenda, ma più come si appare. Sicuramente la Paltrow è apparsa credibile, sincera e collaborativa ed in parte grazie anche alla lana grigia di giacche doppio petto e stivali di Celine, long coat di The Row e maglieria su misura, il tutto rigorosamente no logo. Ma non è la sola e la prima a scegliere il Quiet Luxury come divisa da tribunale, perché Anna Delvey, già qualche anno prima, mostrò come il lusso unbranded sia un’affare di moda quanto identitario, da portare in aula. Fu proprio lei, sulla cui vicenda è andata in onda la serie Netflix “Inventing Anna”, in tailleur Chanel, a sfidare l’élite newyorkese in un processo che la vide uscire sconfitta, ma nel quale illustrò una time line, dove l’abito muta e si spoglia di loghi e simboli per risalire la vetta della scala sociale, rendendola la vincitrice (im)morale agli occhi dei più giovani che si sono appassionati alla sua impresa e ad alle sue impeccabili scelte in fatto di moda.

Sono proprio le collezioni SS 23 a riprodurre un lusso silenzioso, sussurrato dietro i completi sartoriali di The Row, i long dress di Max Mara, le giacche di Tod’s e i trench in pelle di Bottega Veneta, lasciando intravedere un corpo dalla consapevolezza matura come l’età di chi spesso adotta questo stile. Un codice condiviso dai vari brand che prevede pochi capi, ma irrinunciabili: il gilet tailored, il trench, la camicia sartoriale, la statement bag, il blazer tecnico ed il denim scuro.

 

Nulla di nuovo, se si ricorda tutto quello che Celine ha presentato tra il 2008 ed il 2018, attingendo anche a qualche capo 90s d’archivio di Jil Sander, quando il meno era un segno grafico quanto identitario. Ora il cosiddetto lusso silenzioso si traduce nella regola: “vali quello che indossi”, dove il valore sta anche nella qualità.

Così l’abito, con il suo inarrestabile desiderio di apparire, per una volta, si trova a doversi confrontare con l’ostentazione, amica e nemica del lusso che divide il suo pubblico in chi lo abita silenziosamente e chi ne è un rumoroso visitatore.