In italiano si chiama “tuta da lavoro”, in inglese “boiler suit” e universalmente è la jumpsuit in denim a più comparti, indossata soprattutto da piloti e meccanici, una divisa unica per due delle figure professionali che hanno segnato maggiormente il guardaroba del workwear. Ma ora la boiler suit esce dagli spazi aerei e dalle rimesse automobilistiche per giungere nelle collezioni della FW 23, da Alexander McQueen, che rimane fedele al modello originale, a Fendi, che lo rende sartoriale, la pista – o meglio la passerella – è tutta sua. E così dopo la macro tendenza del look aviator, il workwear di vecchia generazione si specializza su un capo in particolare riportando nel presente la tuta da lavoro, rigorosamente in denim e dalla chiusura a zip, proprio come appariva nella cinematografia “ad alta quota” degli anni ’80-’90, anche se la sua storia incomincia anni prima, nei lontani anni ’20 come utilitarian jumpsuit.

La boiler suit, la tuta utilitaria più nota del workwear, si diffonde nel 1919 come tuta da lavoro per chi si occupava di mantenere in funzione le caldaie a carbone, per poi arrivare in tutte le grandi industrie. Nel 1938 fu indossata per la prima volta anche dalle donne, ma con una modifica: il modello divenne più aderente per adattarsi alle forme femminili. Si chiamava Rosie the Riveter, come la donna che per prima la indossò pubblicamente, abbattendo le distinzioni, per l’abito da lavoro, tra uomo e donna. La sua capacità di resistere alle alte e alle basse temperature, la sua resistenza ed il suo spessore la resero per anni il simbolo delle battaglie operaie del 1950. Nel 1960 la tuta da lavoro venne inserita per la prima volta nelle collezioni dei grandi couturier come Dior, per poi divenire un capo simbolo della produzione prét-â-porter nel 1990 con Helmut Lang. Ma ora chi sono i nuovi interpreti della boiler suit? La FW 23 presenta l’ultimo aggiornamento di questo look iconico.

Con Alexander McQueen la tuta rimane fedele alle dimensioni d’origine. Ampia e rigida, il brand inglese richiama la divisa proletaria dei primissimi anni ’30, alla quale aggiunge una macro cinta in pelle con doppia fibbia metallica. Reinterpretazione analoga per Hermès, che realizza una tuta totalmente in pelle più stretta in vita, e Simone Rocha, che però non sceglie il denim, ma un cotone pesante.

Balenciaga, al contrario, la divide in due: pantaloni e giacca, tutto total black. Denim on denim per pantaloni ampi, anzi ampissimi, e giacca sovradimensionata che racchiude nella morbidezza del tessuto il corpo femminile e maschile. Simile anche il modello ideato da Act N°1, che sceglie un viola usurato. E se Balenciaga immagina la boiler suit come un capo da tutti giorni, per Jil Sander la storia si complica, diventando quasi un costume spaziale. Bianca, sempre ampia e con chiusura a zip che percorre tutto il corpo, il brand si immagina di vestire l’uomo per un viaggio galattico, verso terre lontane.

Più vicina alla nostra di Terra, è la divisa street di Valentino, che riveste di linee dritte, minimali, il quotidiano del menswear, solamente aggiungendo una camicia rossa ed una black tie nascoste sotto la boiler suit. Sartoriale e meno utilitarian, la tuta di Fendi è un’altro modello ancora. Formata da una camicia e da una gonna cucite insieme, la boiler suit del brand è un incontro tra il concetto di taglio industriale, rivelato dalla zip e la formalità della sartoria della quale è intessuta la gonna a pieghe.

Così se ora si conosce il valore storico di un capo icona del primo Novecento è anche grazie alle ultime collezioni, che si aprono sempre più al workwear. Un guardaroba che non vive solo tra le mura dell’industria, ma che giunge fino agli atelier più prestigiosi, divenendo prepulsore dell’Utility Mania. E che sia ampio, stretto, lungo, in denim o cotone, la boiler suit convince proprio tutti, dai fedelissimi ai nuovi sperimentatori.