Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno: 7
È il giorno prima della partenza per la prossima tappa (Kanazawa!), e oltre a perdermi sotto un sole cocente – in barba alla stagione delle piogge – dalle parti di Yotsuya, dove sono andata per vedere la scalinata della scena finale di Your Name, mentre la batteria del mio telefono decide di esalare l’ultimo respiro, non succede molto.
Compro una bottiglietta di qualcosa che sembra tè, ma rientra invece nella sottocategoria del quasi-tè, o forse-tè, cioè l’acqua di cottura di un altro vegetale (grano, in questo caso), abbastanza saporita da essere una bevanda, ma non abbastanza da potersi considerare brodo. D’altronde io adoro lo kvas russo, quindi non posso che apprezzare questa bibita imprevista, soprattutto perché è fresca e il sole picchia.
 [E allora perché ti ha fatto pensare al brodo, direte giustamente voi. A questo ho non una, ma ben due risposte: 1. Nei giorni seguenti, ho beccato un forse-tè di soba bollente; 2. Provate un giorno l’okroshka fredda su base di kvas, che è una zuppa in
tutto e per tutto, e ne riparliamo.]

 

Nella zona di Yotsuya trovo, oltre alle famose scale, una serie infinita di piccoli santuari semivuoti, cimiteri cittadini che sorgono fra una casa con giardino e un viottolo alberato. Qualcosa che ti fa dimenticare come, a pochi passi, ci siano la stazione di Shinjuku, le affollatissime vie di Shibuya, il delirio di Kabukicho.
Cerco di passare qui le ore più calde per evitare l’insolazione (ora capisco il perché di tutti quegli ombrelli), poi mi sposto nei giardini del Palazzo Imperiale, non prima di aver terrorizzato una guardia domandando se per caso quello che sento è l’allarme del terremoto [spoiler: non lo era, era solo un annuncio interno].

 

Nella (scarsa) ombra delle due di pomeriggio, probabilmente allucinata dalla calura e dalla mancanza d’acqua, stilo mentalmente un elenco di tutte le cose che si dicono sul Giappone e sui giapponesi, per vedere se combaciano con la mia esperienza. Non so se questa lista abbia senso, ma intanto eccola qui.
1. I Giapponesi sono riservati.
Premesso che, al di là del (presunto) carattere nazionale esistono differenze personali e individuali di grande rilievo, per non parlare di quelle regionali (Nord-Sud, campagna-città, mare-montagna), secondo me non è del tutto vero. Sono educatissimi, gentilissimi, e sicuramente meno rumorosi di noi, ma se ti vedono nel bisogno non esitano a venirti in aiuto spontaneamente, anche senza che sia tu a chiedere. Sono stata portata in giro per Tokyo da adorabili ojiisan e signore che non parlavano una sola parola di inglese, praticamente a braccetto, fino alla destinazione. Corridori in tuta e cronometro hanno arrestato la loro maratona perché mi vedevano fissare una cartina un po’ troppo a lungo, offrendosi di disegnarmi mappe o accompagnarmi. Studenti universitari hanno rischiato di entrare in ritardo ai corsi pur di mostrarmi la strada migliore per raggiungere un parco o un santuario, o come fare un biglietto alle macchinette. Spesso per i più giovani può essere un buon pretesto per fare conversazione in inglese, e quindi si lanciano in domande più o meno personali: da dove vieni, com’è la città dove vivi – uno mi ha persino detto che il suo sogno è vivere a Genova, cosa che mi ha un po’ sorpreso, ma ha subito aggiunto: perché è la città del mare.
2. Il Giappone è caro.
Anche qui, secondo me è falso. Il volo è sicuramente costoso, e i trasporti interni hanno prezzi altissimi per i nostri standard (ma anche un’efficienza che noi ci sogniamo), tuttavia per quanto riguarda gli alloggi non è niente che chi vive a Milano non abbia già affrontato, e mangiare costa pochissimo. Quando dico pochissimo, intendo che cenare a Tokyo è senz’altro meno caro che in qualsiasi città turistica italiana, e a Osaka sei takoyaki a un chiosco costano 300 yen, cioè attualmente 2 euro. Unica eccezione Kyoto – che comunque costa meno di Milano – ma di questo parleremo poi.
3. I Giapponesi lavorano tantissimo.
Sì e no. Sono sicuramente molto dediti al lavoro, hanno pochissime vacanze e a Tokyo fare straordinari assurdi è un’eventualità piuttosto frequente – questo sicuramente sì, specie per gli impiegati governativi o per chi lavora in azienda. Ma nonostante i konbini siano aperti quasi h24, i negozi privati spesso chiudono fra le cinque e le sei di pomeriggio, e se si esce da Tokyo e si va verso centri più piccoli i ritmi di vita (e di lavoro) sono ben diversi – verso le quattro o le cinque di pomeriggio la frenesia comincia gradualmente a spegnersi, e prendono ad accendersi le insegne dei punti di ritrovo (ristoranti, izakaya, bar, e chi più ne ha più ne metta) in cui trascorrere la serata prima di rientrare a casa. [Ad Hakoné, complici la pioggia e la bassa stagione, ho trovato tutto chiuso già alle quattro di pomeriggio.]
4. Tokyo è una metropoli modernissima.
Vero, ma non troppo. Sono conservati splendidi angoli di antichità, da scovare con cura nei vari quartieri, non sempre segnalati sulle guide o sulle mappe. Ci sono senza dubbio cose che danno l’impressione di vivere nel futuro (o di aver sempre vissuto nel passato, a seconda di come la guardi), come i maxischermi di Shinjuku con i gattini tridimensionali (o le lontre, ultimamente c’è stato un cambio nella programmazione) che sembrano balzare fuori dai pixel e i treni rapidissimi, i robot camerieri e altre amenità, ma anche tanti elementi che ricordano come il Giappone sia anche (soprattutto fuori dalle metropoli) un paese rurale e amante della tradizione: nelle strutture turistiche, pochi parlano inglese; il pagamento con carta di credito è tollerato, ma non diffuso, e in alcuni locali impossibile, anche nei quartieri più popolari; molte persone hanno con sé uno o più amuleti acquistati o ricevuti in un santuario, o in occasione di una celebrazione, come protezione dagli imprevisti; i ristoranti dove mangiare, nelle piccole come nelle grandi città, possono avere solo una decina di posti, o meno; accanto, o all’interno, di quartieri dagli edifici ipermoderni, spuntano orti, giardini, piccoli templi o casette in stile tradizionale.
5. Il Giappone è un paese molto sicuro.
Sì, a livelli che non ci immaginiamo nemmeno. Ogni tanto, sulle banchine della metropolitana o dei treni locali che raggiungono destinazioni piuttosto lontane, compaiono i cappellini gialli o le divise dei bambini delle elementari. Da soli o a gruppetti, solo raramente accompagnati da un genitore, si incamminano verso il binario che li riporterà a casa districandosi fra le complesse segnaletiche – mentre io continuo, come una tonta, a perdermi.