Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno: 6
Ore di viaggio: mille
Luoghi visitati: Chiyoda (Tokyo), Odawara, Hakone, Yokohama
Parola d’ordine: ciuff ciuff
Il lato positivo di avere un abbonamento dei treni illimitato (grazie, costosissimo e letteralmente insostituibile JR pass) è, appunto, che si possono prendere un sacco di treni. I treni giapponesi, nello specifico, sono splendide, dragonesche creature dai sedili girevoli e dalle tendine deliziose – puntualissime, di una pulizia incredibile, silenziose (sia loro che i passeggeri) e la seconda classe fa invidia alla nostra prima. Su una di esse, non diversamente che sul Falkor, si può raggiungere quasi ogni punto del Giappone.
Quasi.
Devo incontrare Lisa, la mia amica cinese – che ha un altro nome ma si è arresa davanti alle mie storpiature dei fonemi che lo compongono – sul lago Hakone, in mezzo a una riserva naturale e, almeno a giudicare dal meteo, a un diluvio universale. Io comunque voglio sperare per il meglio, non perché ce ne sia ragione, ma per abitudine. Il mio JR pass il giorno prima ha fatto le bizze, minacciando di abbandonarmi per sempre, e solo gli imperturbabili addetti al trasporto pubblico tokyota mi hanno salvata dal dover pernottare dentro la stazione della linea metropolitana, aprendomi i tornelli senza nemmeno chiedere spiegazioni.
Mi muovo dunque con grande anticipo, e quando dico grande, intendo che mi sveglio alle quattro del mattino per l’ansia e alle 5.56 sono già a Shinjuku, dove gli addetti allo sportello stanno ancora dormendo alla grossa nascosti dietro gli schermi. [ Sembra uno scherzo, ma veramente dietro gli schermi delle macchinette ci sono delle persone che lavorano e a cui si può chiedere informazioni nel caso il servizio elettronico non funzioni, basta richiedere assistenza e si apre lo sportellino da cui spunta il signor Capostazione o chi per lui].
A quel punto, vado direttamente alla stazione centrale di Tokyo, da cui poi dovrò prendere lo shinkansen fino a Odawara, e poi il treno delle ortensie, che è escluso dal mio pass ma costa 1400 yen andata e ritorno [circa dieci euro] ed è una spesa che posso sostenere. Ma prima di andare a spiegare la mia lacrimevole storia in un giapponese sgrammaticato e pieno di gesti e disegnini al signor JR in persona, faccio la prova dei tornelli, così, per essere sicura.
Il pass funziona: la storia lacrimevole sarà per un’altra volta. Alle macchinette mi assicuro la prenotazione per Odawara e poi quella per Kanazawa, del giorno dopo, e già che ci sono quella Kanazawa-Kyoto, di lì a quattro giorni, e poi Kyoto-Tokyo, della settimana successiva. Sono le 6 del mattino e io mi sento invincibile, premo tasti come una professionista e immagino, al di là dello schermo, un impiegato JR che mi guarda fiero e un po’ commosso.
Fino a Odawara tutto fila liscio, il che non è un bene, dal momento che avevo preventivato almeno un’ora di intoppi. Ma siamo in Giappone e ogni problema si risolve in cinque minuti. Scrivo a Lisa che arriverò con un’ora di anticipo e la aspetterò al Museo a Cielo Aperto, sul cucuzzolo della montagna, dove è conservata una collezione di disegni e opere di Picasso e un giardino pieno di statue e installazioni d’arte moderna.
Il treno delle ortensie si chiama così non perché sia fatto interamente di fiori – per chi avesse avuto un dubbio – ma perché, nella giusta stagione, percorre a bassa velocità un cammino su cui è possibile ammirare centinaia e centinaia di ortensie di ogni varietà. Mi accorgo che ne esistono di forme e colori mai viste, non solo le classiche rosa, pervinca, bianco-verdi e azzurre ma anche di differenti sfumature di viola, blu e fucsia, e poi a punta, coi fiori a stella, o le corolle aperte all’esterno e solo boccioli all’interno…  Nemmeno la pioggia a torrenti sembra frenare il loro rigoglio.

 

Però frena noi, e corriamo da un punto di ristoro all’altro, godendoci senza dubbio la collezione di Picasso (al chiuso) e la torre panoramica di vetrate colorate (ben riparata), ma molto meno i giardini con le sculture. Poco distante da una caffetteria in cui ordiniamo tè e generi di conforto, scorgo qualcosa che cambia la mia giornata: una sorgente termale per i piedi. Certo, è all’aperto, sotto la pioggia battente e le raffiche di vento, ma è pur sempre un onsen, e io a un onsen non dico mai di no. Sfido l’imminente burrasca e mi siedo, scalza e coi piedi a bagno, sul sedile di pietra. Il quale a sua volta era nella tempesta, e mi lascia come ricordo la sua impronta fradicia stampata sulle chiappe.
Ma non finisce qui. Lisa e io decidiamo di intraprendere un tortuoso sentiero verso le cascate, che non sono segnate con grande precisione su nessuna mappa, salvo un cartello che indica il pericolo orsi (idea mia); le troviamo, ma abbiamo troppa paura degli orsi per proseguire, e ce ne andiamo cantando ad alta voce e con gran rumore di passi, come suggerisce il Manuale delle Giovani Marmotte.
Poi (idea sua) finalmente scendiamo al lago, dove c’è un santuario, e se non ci fosse la burrasca anche uno splendido panorama. Nel tragitto rischiamo di essere investite da un bus, ma non facciamo una piega. Siamo così infradiciate che stanno per spuntarci le branchie, e in più abbiamo fame; fortunatamente troviamo un Family Mart aperto e con dei cestini (merce rara in Giappone) dove buttare gli involucri del nostro cibo – immancabili onigiri e un karage da supermercato, che è pur sempre karage.
Rimaniamo così, a contemplare in estasi le meraviglie della natura, il torii immerso nelle acque di Hakone, e la perfezione del pollo fritto.

 

Al ritorno decido di non scendere a Tokyo, ma di fermarmi un paio d’ore a Yokohama, per mangiare a Chinatown. Il mio contapassi segna 32.341, le ossa scricchiolano, eppure lo faccio.
Non so se è troppo tardi, troppo presto o troppo lunedì, ma non c’è nessuno in giro: prendo dei bao al vapore a un chiosco e dei nuggets karage al Makkudonarudo (esatto, è la trascrizione giapponese) che esistono solo nei MacDonalds nipponici e mi metto a mangiare lungo il porto, guardando l’ombra lunga della statua – semovente durante il giorno – di Gundam.