Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno 3
Ore di sonno: sei
Onigiri consumati: più di quattro, ormai sono velocissima a scartarli
Senso di fame: nonostante i pasti, perenne
Sono una persona semplice: se ci siamo appena conosciuti e mi porti in giro per Tokyo, dopo cinque minuti stiamo parlando della situazione in Corea del Nord negli anni ’70.
Ma andiamo con ordine. Anzitutto trascorro una notte agitata perché cosa sono dodici ore di cammino ininterrotto senza un po’ di stanchezza aggiuntiva? Ormai il Family Mart sotto l’hotel può entrare nel mio stato di famiglia, dal momento che ci passo come tappa obbligata ogni mattina. Colazione veloce a base di onigiri (secondo il pratico metodo del tira la linguetta su – tira l’angolo destro – tira l’angolo sinistro, tecnica basata con ogni probabilità sulle stesse equazioni che renderebbero possibile il ponte sullo stretto) vale a dire un triangolo di riso ripieno di cose – salmone e wasabi, umeboshi [prugne salate], vari pesci piccanti, o l’immancabile nattou [fagioli di soia fermentata]. Afferro anche un caffelatte in bottiglia – sì, esiste, sì, è buono – ed esco.
Vado a Harujuku, dove mi aspettano meravigliose mary jane con la zeppa, orecchie da coniglio, gelati di ogni genere, dolci di cui non capisco nemmeno la composizione e un sacco di rosa. Entro ed esco dai negozietti, arraffando quello che posso e poi mettendolo giù prima della cassa – a che mi servirà mai una penna rosa con un polipetto? E una sfera di plastica contenente un set da barbecue in miniatura? E una scatola di adesivi con le balene in glitter, no, dai, siamo seri, le balene ci servono.
Mentre sto per dirigermi a comprare un toast a forma di faccia di gatto all’interno di un cat cafè e uno a forma di cane nell’adiacente dog cafè, mi ricordo che ho appuntamento con Valentina, cara amica di miei amici che si trova a Tokyo proprio nel mio stesso periodo dopo quasi un mese in Giappone. Ci vediamo a ora di pranzo, da Maruka, che serve udon e anche altre cose, tutte molto misteriose visto che il famoso eiga no menyu, menú in inglese, non c’è.
Io arrivo stranamente in anticipo, giusto in tempo per torturare durante i quindici minuti di coda due poveri ragazzi dietro di me a cui chiedo di raccontarmi in inglese qualcosa sui piatti. Giungo a più miti pretese: mi dicano almeno cosa è carne, cosa è pesce e cosa è altro.
[No, non ho pensato di usare Google per inquadrare il menù e tradurlo. Chissà chi ha messo in giro la voce che sono una persona sveglia.]
Dopo gli udon ordinati in un giapponese di pura fantasia, io e Valentina decidiamo unanimemente quello che nessuno sano di mente deciderebbe: di attraversare il centro di Tokyo a piedi, da Chiyoda a Shinjuku, passando per il quartiere delle librerie Jinbocho, fermandoci a una mostra di arte floreale dove beviamo caffè giapponese, attraversando ponti, residenze imperiali, altari e giardini meravigliosi, e riuscendo (forse) a capire qualcosa in più di Tokyo.
Camminiamo per circa altri sei chilometri, incuranti dell’aria umidiccia e di qualsiasi forma di buonsenso. Veniamo salvate da un giapponese in corsa, che arresta la sua strenua attività sportiva dicendoci che il giardino imperiale è chiuso perché è venerdì, mentre il palazzo è chiuso e basta.
Arriviamo quindi allo Shinjuku Gyouen, dove si dice che Makoto Shinkai abbia ambientato il suo Giardino delle Parole. Già che ci sono, racconto a Valentina l’intera trama del film – che dura mezz’ora – mettendoci circa quaranta minuti. Valentina non aveva chiesto niente, ma tant’è.
Alla stazione ci separiamo: alle 19 sono infatti attesa “sotto il Godzilla”, cioè la statua che torreggia sul quartiere di Kabukicho. A Kabukicho, tutti i ragazzi sembrano (aspiranti?) idol o cantanti di visual key, e chi non lo sembra ha un’aria spaesata, come di uno che non capisca bene cosa succede intorno a lui. Anche oggi, il corteo delle maido (“maids”, ragazze vestite da pseudocameriere) mi accoglie trionfalmente mentre attraverso con i piedi a pezzi l’ultimo tratto di strada prima dell’hotel. Una doccia rapida e sono pronta per un giro del quartiere – dai maido bar ai guy club, passando per una yakiniku (barbecue di carne) in cui grigliamo organi di mucca direttamente sul tavolo – io obbedisco e non faccio storie -, fino al quartiere gay. L’amico che mi accompagna, Shin, mi racconta vari aneddoti sulle izakaya della zona, così piccole e anguste da ospitare appena tre o quattro tavoli e non più di una dozzina di persone. Una cosa tira l’altra, e ci si ritrova a parlare della Corea del Nord, negli anni ’70.
P.S. Non se n’è andato e di questo dobbiamo ringraziare l’impeccabile educazione giapponese.