“Dietro cotanta grazia vi è un corpo che si piega al rigore”, si legge in un’articolo del 1971, con il quale Martha Graham, ballerina e coreografa statunitense che ha dedicato la propria vita alla danza, apriva al pubblico (almeno idealmente) le mura di una ballet room, permettendo a chiunque di scoprire le fatiche e i dolori dell’arte sulle punte. Mai totalmente compresa, sopratutto se vissuta come spettatori comodamente seduti nelle fila dell’Opèra Garnier di Parigi, la danza classica è sinonimo di dedizione e passione: due parole che assumono un peso diverso se si è dentro un tutù che di roseo ha solo il colore. “Solo un’uomo che conosce il valore di una scelta per la vita, conosce realmente la danza”, disse anni dopo Rudolf Nureyev, riferendosi alle premature scelte prese da giovanissimo per divenire un ballerino. E sono quelle stesse parole a risuonare familiari a John Galliano, proprio lui che ha vissuto il suo percorso creativo come un assolo da cigno nero, tra alti e bassi, ma senza mai interrompere la musica.

Fu proprio Galliano nel 1995 ad avvalorare le parole di Nureyev, rendendo omaggio alla danza classica con la collezione Dior SS ’96, con la quale portò in scena il dramma che si cela dietro gonne minimali e corpetti prorompenti. Uno show che segna l’ingresso del balletto nella moda e che permette a stampa e critica di associare le due arti come mai fatto prima.

Al fascino dell’opera non resiste nessuno e, subito dopo la rilettura dell’allora direttore creativo di Dior, arriva alla sbarra Valentino con la collezione SS ’97 che racchiude, dietro le sete e i ricami floreali, la grazia dell’opera “Giselle”. Sarà sempre Valentino diversi anni dopo, nel 2017, a disegnare i costumi per la stagione del balletto di Roma e poi, nel 2021, di nuovo Dior, ribadendo il legame tra le maison e la danza. A seguire Versace, Chanel, Burberry continuano nell’impresa di coniugare la moda al balletto.

“Sex and the City”, Carrie Bradshaw (Sarah Jessica Parker) nella celebre sigla della serie tv, per la prima volta andata in onda negli Stati Uniti nel 1998

Dopo rari seppur magnifici contatti tra l’abito ed il tutù negli anni ’90 – che hanno visto collaborazioni come Iris Van Harpen con il coreografo belga Damien Jalet e Jean Paul Gualtier con la coreografa  e ballerina francese Régine Chopinot – con gli anni 2000 la danza muta in una forma più inclusiva, accessibile e sopratutto condivisibile e saranno infatti il cinema e la musica a fare da tramite. Il primo capitolo 00s viene scritto da una ventenne Jessica Alba in “Honey” del 2003, dove, tra top e pantaloni low-waist abbinati a spessi scaldamuscoli sgargianti, regala ai millennials l’immagine della ballerina comune che si batte per realizzare il proprio desiderio. E sono i suoi abiti di scena, studiati dalla costumista Susan Matheson, ad incuriosire designer come Tom Ford e Marc Jacobs che, rileggendo i look del dance-movie, creano la tendenza indie sleaze. Un aggiornamento dell’immagine del ballerino che per la prima volta lasciava i teatri dell’opera classica per camminare per le strade di NewYork, con sullo sfondo le grandi scritte di Brodway. Uno stile che fino a pochi anni prima idolatrava i corpi esili e la vita edonistica e che ora si apre alla sinuosità di forme comuni. Oltre al corpo anche il guardaroba femminile si allarga includendo nuovi capi: leggings, scaldamuscoli, cardigan e flat shoes dalla punta arrotondata proprio come le mezze punte della danza classica.

Esattamente tre anni dopo “Honey”, l’uscita di “Step Up” del 2006 segna un nuovo traguardo per il look da ballerina. Con la storia di Nora Clark alias Jenna Dewan e i suoi training look da sala e la contaminazione con l’urban culture, le nuove generazioni hanno un nuovo riferimento in fatto di moda e questa volta la danza ha un ruolo fondamentale. Il ballo diventa espressione estetica anche fuori dalle sale da ballo, insinuandosi nella quotidianità, davanti ad un guardaroba stracolmo di maglie in jersey. In quegli anni, Gucci e Prada si avvicinano sempre più alla maglieria in jersey, anche grazie allo spopolare dei cardigan indossati dalla Dewan nel movie.

Natalie Portman in una scena del film “Black Swan”

Ma è il 2010 l’anno in cui cinema e danza raggiungono l’apice della loro collaborazione, con l’uscita di “Black Swan”. Una pellicola dove il rosa del tulle indossato da Natalie Portman impone una rilettura obbligata dell’immaginario della danza, del suo costume e dei suoi usi. Il ruolo di Nina Sayers fa raggiungere alla Portman grandissima notorietà e da quel momento la sua immagine viene associata alle doti di una danzatrice: grazia e leggerezza. Un lavoro interpretativo che si impreziosisce dei costumi ideati da Amy Westcott che la eleggono a propulsore del contemporaneo balletcore. Una disciplina estetica dal valore artistico che conta quasi un milione di tag su TikTok, dove nasce la sua denominazione, e che annovera tra i suoi massimi esponenti Giambattista Valli, Miu Miu, Simone Rocha e l’ultimo Dior.

Giambattista Valli con i suoi abiti in tulle sorretti da rigide strutture nascoste, MiuMiu con il suo linguaggio preppy teen, Simone Rocha con la sua impalpabile grazia, Dior con il messaggio di danza come strumento di emancipazione femminista, sono loro ora a dare lustro alla tendenza, dando vita ai quadri di Edgar Degas e le sue ballerine. Tra questi una menzione d’onore spetta al lavoro di Miu Miu con la FW ’22, dove sotto look collegiali appaiono le mezze punte e in raso rosa come da tradizione. Una mossa creativa che vuole riportare l’attenzione sulla femminilità nella sua forma più fragile, quasi infantile e che, con le minigonne ad accompagnare le scarpette da ballerina, emancipa la donna vestendola di giovinezza. Lo stesso lavoro, in una rilettura gotica, lo fa MM6 di Maison Margiela con la SS ’23, dove sfilano mezze punte in seta, pantaloni in denim con micro fori e mini top per l’uomo, body aperti alternati a mini dress velati per la donna, riconfermando il balletcore una tendenza binaria.

Una scena di “Flashdance”

Ma questo la sa anche Balenciaga, che con le sue flat shoes con punta arrotondata SS ’23 per l’uomo annulla le diversità tra i generi. Una scelta che non vale il primato a Demna Gvasalia, perché anni prima, nel 2014, Dries Van Noten fu il primo a presentare on stage la moda-danza al maschile. Il balletcore rimane una disciplina interpretativa che si rivela non solo nel richiamo alla divisa da ballerina, ma anche nella scelta di tessuti quali satin e jersey, come nel caso di Nensi Dojaka che crea body tecnici alla “Flashdance”, resi sensuali dalle lavorazioni front e back. Un successo cinematografico risalente al 1983, ma non poi così lontano come vuole dimostrare il duo di Rodarte (Kate e Laura Mulleavy) che omaggia, con alcuni look della SS ’23, i costumi di scena di Alex Owens protagonista della pellicola, in una ricerca creativa che si allontana dalla danza classica per riscoprire la disco dance degli anni ’80.

Tra i nuovi talenti spiccano i nomi di Alessandro Vigilante, che riporta in ogni collezione la sua infanzia da ballerino contemporaneo apponendo drappi su long dress in tessuto tecnico, e Arturo Obegero, ammiratore delle arti performative e dei lavori del danzatore spagnolo Antonio Gades.

Una time line precisa che guida la moda in un pas de deux con la danza, compagna dei tempi. E dopo mille plié, il balletcore si mostra per quello che è: un tentativo della moda di imprimere nell’abito la grazia ed il movimento della danza.