“Julie”, edito da Sonzogno, è il nuovo romanzo di Ida Amlesù (Milano, 1990), scrittrice, slavista e traduttrice, diplomata all’Accademia Ambrosiana e laureata in Lingue e Letterature Europee e in Letterature Europee e Americane. Ambientata nella Parigi del Re Sole, la storia racconta di “un tempo dove tutto era teatro […] e per una donna la strada verso la libertà passava attraverso un solo artificio: il travestimento. È la storia di Julie, che fu donna, uomo e, soprattutto, fu se stessa”.

 

Introduciamo il tuo nuovo libro, come lo descriveresti?
È sempre molto complesso descrivere un libro e questo caso non fa eccezione. Inizialmente volevo che fosse qualcosa di vicino ai romanzi storici, di cappa e spada, diciamo, che leggevo durante l’infanzia. Sviluppandosi, però, ha preso forma autonoma, racchiudendo in sé diversi altri generi: romanzo d’azione, romanzo psicologico, romanzo di formazione, d’amore, del mistero, con elementi di storia troppo forti per essere ignorati. La storia di Julie d’Aubigny, poi, è modernissima. Un personaggio davvero eccezionale, un abisso dalle profondità insondabili, dotato della forza di un uragano. Una donna vestita da uomo – parlando di sé, nelle lettere, usava il femminile, eppure preferiva gli abiti maschili – che rivendicava il diritto a un’esistenza piena, senza rinunce, senza paure. Non voglio fare spoiler, ma ripercorrendo la sua vita incontreremo duelli, omicidi, incendi, evasioni, amori impossibili: il cammino dell’eroe per antonomasia.

Avevi mai scritto un romanzo storico prima? Come ti sei trovata con questo genere?
Mai e poi mai. Sono più incline alla narrativa destrutturata, i famosi “romanzi senza trama” o dalla trama molto tenue, un puro pretesto per raccontare altro. Qualcuno ha detto, una volta: “Amlesù non sa costruire una trama”. Credo di averlo ampiamente sconfessato. Sono una donna: so fare tutto. Mi è piaciuto molto scrivere un romanzo storico, perché c’è una parte lunga e avvincente, quella preliminare, in cui si fanno ricerche sugli usi, i costumi, i vestiti. Ho studiato letteratura francese e conoscevo già discretamente la Francia del Re Sole; eppure l’ho riscoperta, in un modo completamente nuovo, diverso, come se la vivessi dall’interno. Mi sono anche permessa qualche – studiata – libertà, un paio di utili anacronismi; però direi che è un ritratto abbastanza fedele dell’atmosfera dell’epoca.

Approfondiamo meglio la figura della protagonista, chi è?
Julie d’Aubigny è stata una cantante lirica agli albori dell’opera francese, ma anche una spadaccina professionista e, per qualche tempo, una fuorilegge. Era stata cresciuta come un ragazzo dal padre, un po’ come la strepitosa Lady Oscar, a cui somiglia molto sotto svariati aspetti. Il sospetto che la mangaku Riyoko Ikeda, documentatasi a fondo sulla Francia sei-settecentesca, nelle sue letture abbia incontrato e si sia lasciata ispirare dal personaggio di Julie non è del tutto peregrino. Non ci sono molte figure affini alla sua Lady Oscar nella storia francese, salvo alcune eccezioni – Giovanna d’Arco, il cavalier d’Eon e la d’Aubigny. Fra tutti, Julie è quella che si avvicina di più a Oscar. Bisessuale dichiarata, abilissima con le armi, generosa eppure spietata, audace, ma tormentata dai suoi demoni: Julie d’Aubigny ebbe anche un altro nome, Julie de Maupin, che usava per calcare le scene come cantante. Era il cognome del marito, a cui fu data in sposa giovanissima e da cui scappò per vivere liberamente per le strade della capitale. Dopo un duello finito male, è costretta a fuggire dalla città, da cui resta formalmente bandita per molti anni ed è qui che la troviamo noi: sedicenne, in fuga con il complice e amante Séranne, il luogotenente di polizia La Reynie alle calcagna. Il suo cammino per tornare a Parigi e conquistare i teatri della capitale sarà costellato di avventure, amori e tragedie. Però non aggiungo altro o svelerei troppo!

Quali sono i temi affrontati nel libro? Ce n’è anche uno molto attuale legato al genere queer della protagonista, ce ne parli?
Sicuramente l’identità, non solo di genere, e la diversità. L’identità di genere ha un ruolo importantissimo nella psicologia del personaggio, ma nel raccontarla ho voluto rispettare le convinzioni (e dunque anche le parole) dell’epoca, dal momento che il libro è scritto in prima persona e la voce appartiene a un personaggio nato e cresciuto nella Francia del XVII secolo. Oltre a indossare abiti maschili, Julie d’Aubigny era apertamente bisessuale e i suoi grandi amori furono donne. Ma non è l’unico personaggio queer del libro, anzi: fra i tanti esempi, citerei sicuramente l’abate François Timoléon de Choisy, storicamente esistito, al secolo noto anche come contessa des Barres… Un’altra delle tematiche che mi stavano a cuore è la rappresentazione di un sentire diverso. Molte delle voci che popolano le pagine del libro sono dissonanti; per utilizzare un termine caro al mondo moderno, hanno dei disturbi. Ma io detesto la parola disturbo. Non riesco a usarla nemmeno adesso! Chi stanno disturbando e come? È un termine assurdo. Tornando al libro, Julie ha dei tratti di quello che adesso si chiama disturbo borderline di personalità. Me ne sono accorta leggendo e rileggendo la sua storia, eppure questo non ha affievolito il suo fascino, anzi. La sua complessità si è arricchita di nuova profondità. Volevo un libro che mostrasse com’è il mondo per chi sente a un’altra frequenza, senza dover per forza fare della diversità un piagnisteo. Julie è eccessiva, è furiosa, è piena di rabbia, percepisce suoni e immagini alterati, spesso vede o crede di vedere cose che non ci sono, è ossessionata dalle creature mitologiche che sognava di combattere, dai fantasmi del suo passato, eppure non è debole, mai, in nessun momento, anche quando sta per crollare. La sua diversità – quello che lei chiama il mostro – la rende inarrestabile.

 

Estratto da “Julie”, ed. Sonzogno

Occhi, dappertutto. Non potevo vederli, ma sapevo che erano puntati su di me, sull’armatura che mi stringeva il petto in un ab- braccio ferroso, sul mio elmo scintillante. Ero la guerriera che sognavo di essere, la lancia in mano, racchiusa in una corazza a moti- vi dorati, pronta a uccidere e a vincere, ancora. […]

Ero potente. La mia passione spezzava il ferro delle mille gabbie che intrappolavano i cuori del pubblico. Il mio dolore scivola- va sulle teste della sala come un fiume di inchiostro, tingendo i volti, i corpi, gli abiti, fino a farli cosa mia. Io ero gli altri, gli altri erano me.

Ero la dea che dal cielo scendeva in picchiata a salvare i suoi protetti, invincibile. Avevo l’egida, l’elmo, una lancia per trafigge- re le carni, e la mia voce come un incantesimo. Una voce che avrebbe squarciato le porte di Versailles, sfondato le fila dell’esercito regio.

Cantai le ultime note, mentre dietro di me Cadmo si riparava dalla collera di Era. In me era il destino dei due innamorati. In me era il destino del mondo. Spalancai le braccia in un gesto di trionfo. Dal pubblico salirono le grida. Chiamavano il mio nome. Chiamavano me.

Maupin, Maupin, Maupin…

Inebriata, mi sfilai l’elmo. Andava contro la preferita fra le re-gole di Maréchal – non uscire dalla parte -, ma io detestavo le regole. La luce mi accecava gli occhi. Il boato del pubblico crebbe, presero a volare piccoli doni, fiori, fazzoletti di seta.

Non mi chinai a raccoglierli. Lasciai che mi cadessero intorno, finché le urla non si spensero in un silenzio palpitante. Aspettavano che io facessi qualcosa.

Ma io ero Pallade Atena. Con l’elmo sottobraccio rimisi il mio piede di dea sul carro e tornai lassù, nella mia corsa verso il sole. Nel buio della sala udivo ancora, sommessi, i singhiozzi. Qualcuno piangeva per me. Respirai a fondo, come se potessi sentire l’odore acre delle lacrime.

Poi gli ingranaggi si mossero e io scomparvi.

Dietro le quinte, scivolai fino allo stanzone appena sotto la sala, dov’erano i nostri camerini. Un’unica stanza per tutti, cantanti uomini e donne e persino quelli a metà, che ancora non volevano decidersi. Avevamo dei paraventi di legno, a volte coperti da pannelli di stoffa ricamata, per nasconderci. Ma nessuno provava vergogna, o pudore, o curiosità. I nostri corpi si conoscevano e non si trovavano più interessanti. Sapevamo di cosa odoravano i seni e le pieghe delle cosce e le ascelle di ciascuno.

Solo delle primedonne ignoravamo le forme, perché a loro era concesso di spogliarsi in privato. E questo mistero era ai nostri occhi la più grande bellezza. […]

Ma Parigi – la Parigi che un tempo aveva dimenticato la d’Aubigny – cominciava a ricordare la Maupin splendida dagli occhi azzurri, i capelli arricciati sulla fronte, senza corsetto anche in scena, e il Thévenard seducente, sfrontato, pronto a scherzare con la morte. Ci ricordavano in equilibrio sul passamano del pont Neuf, di notte, a fare a gara con le pistole, una mela come bersaglio sulla testa di entrambi; e ricordavano quando ero caduta in acqua per schivare una pallottola – erano a salve, ma facevano male – ed ero riemersa dalla Senna con una risata, senza camicia, il seno all’aria, mentre la folla scrutava nell’oscurità la mia inaspettata figura di donna.

La rovina di La Reynie aveva portato l’oblio sulla mia prima esistenza – la d’Aubigny, l’angelo della morte, chi la rammentava più? Una ragazzetta scalza, senza cervello, affogata in un fiume o spirata in una cella umida allo Château d’If – e ora ero risorta con un nome che pochi conoscevano.

Ero la Maupin, l’incredibile, sfolgorante, violenta Maupin. E quella sera avevo calcato per la prima volta il palcoscenico di Parigi in un ruolo da solista. Non più una copertura, uno pseudonimo: la Maupin aveva preso vita.

Mi avvicinai a Garçon. Lui si alzò per lasciarmi il posto. Ma invece di sedermi, mi poggiai allo sgabello e mi inginocchiai lentamente, fino a toccare terra. Mi stesi, e respirai.

Non erano rari, dopo le altezze estatiche del canto, quei momenti di dolore improvviso. Era un male fisico – il mostro si riprendeva quello che era suo. Il cuore di colpo era un macigno ancorato al suolo, i polmoni erano ingabbiati da un forziere di metallo, incapaci di prendere aria; le gambe cedevano e ricercavano la quiete del pavimento.

Solo così respiravo. E sapevo che ne avrei pagato le conseguenze, perché in scena sarei stata fiacca, e dunque stonata. Ma il pubblico non se ne sarebbe accorto. Era lì per vedere la Maupin, né uomo né donna, o forse entrambi; quella che sparava e si faceva sparare, quella che precipitava nei fiumi e riemergeva nuda, quella che, il cuore nero conficcato nel petto, affascinava col canto il suo bestiale uditorio. […]

Mancava ancora tempo prima di tornare in scena. E io la aspettavo.

E se non fosse venuta?