Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable

Giorno: 17
Clima: caldo umido e ostile
Zanzare grosse come elicotteri: 4
Ombrelli parasole avvistati: 9
Ombrelli parapioggia: +100
Ombrelli in mio possesso: nessuno
Destinazione: Tokyo, di nuovo

In questo giorno piovosissimo, dove il cielo sembra piangere o almeno sgocciolare un infinito ghiacciolo tiepido, per citare più o meno Verlaine (per il cielo che piange; non mi risulta che Verlaine fosse un consumatore di ghiaccioli) – dicevamo, in questo giorno piovosissimo, mi aspettano due cose da fare prima di ripartire per Tokyo: devo vedere Jane, l’amica del mio amico nipponofilo Jacopo, e poi la famosa discesa che c’è in tutti i post di Instagram, dove la gente scende vestita in kimono al suono di musichette improbabili. Non che io abbia intenzione di rimettermi il kimono o di esibirmi in danze al ritmo di jingle selvaggiamente remixati; è una pura forma di accanimento, dal momento che cerco questo quartiere dal primo giorno, sono a Kyoto da più di una settimana e ancora non l’ho trovato.

Alla fine lo identifico in Kiyomizu-dera e mi riprometto di passarci appena spiove.
Ah, se solo avessi saputo. Se solo avessi guardato le previsioni del tempo!
Esco di casa fra i fiumi d’acqua che scorre costeggiando gli edifici antichi, in legno scuro, i casermoni di cemento grigio, le insegne, i templi che sbucano di qua e di là; la pioggia mi rema contro, mi schiaffeggia il viso e dentro di me mi dico che in fondo non è colpa mia se a Kanazawa ho perso il mio super tecnologico ombrello del konbini – però è forse mia responsabilità non averne comprato un altro.
L’appuntamento è da Starbucks, dove Jane mi aspetta (lei ha l’ombrello) davanti a una specie di frappè al lemon curd gigante cartonato che pubblicizza una delle specialità degli Starbucks del Sol Levante. Ordiniamo qualcosa di cui non sono certissima, perché non so leggere i kanji e cominciamo a chiacchierare.
Prima di tutto, vorrei andare in bagno. Sono già confortata al pensiero della toilette giapponese tiepida, profumata e che suona e canta per te; ma lo stesso devono aver pensato i gestori del locale, che hanno messo un codice al bagno. Sì, un codice, come per le casseforti e i caveau delle banche. Il numero segreto me lo dà il barista, ma sbaglia a scrivere le cifre perché i 7 si confondono con gli 1 e i 4 e io non riesco a sbloccare la serratura, anzi, la blocco temporaneamente. Sono molto delusa e triste, e quando ritorno ordino una torta al macha.
Con Jane parliamo di tutto, dalla cultura antica di Kyoto allo speciale cerimoniale che si mette in atto per fare capire agli ospiti che se ne devono andare a casa (a quanto pare, i modi sono così indiretti che ti viene offerto un dolce specifico con il tè e tu capisci che è ora di levare le tende), ma soprattutto la cosa più importante – sottopongo alla ragazza, che ho ovviamente appena conosciuto, l’intricata vicenda quasi sentimentale che mi attende a Tokyo il giorno seguente.
Una delle prime persone che ho conosciuto è un ragazzo che mi ha dato informazioni e mi ha portata in giro il giorno del mio arrivo, quello che doveva fare un esame due ore dopo; a quanto pare, ha deciso di chiedermi di uscire e io e Jane passiamo circa un’ora a cercare di capire quanti anni possa avere, posta l’universale verità che tutti i giapponesi maschi, dai 18 ai 40, dimostrano circa 13 anni.
Ho solo una foto e non si vede bene, allora cerchiamo di risalirci per vie traverse: indaghiamo su quale esame potrebbe essere quello in questione unendo data, ora e luogo, per scoprire se è universitario o, come penso, un esame abilitante per chi già lavora; io intanto mi lancio in mirabolanti fanfaluche, della serie “secondo me è figlio di un diplomatico”, “ha qualcosa di insolito, non insolito del tipo che mi ucciderà, ma non me la conta giusta”. Alla fine concludiamo che probabilmente ha ventun’anni, ma forse quaranta – insomma, i nostri sforzi sono totalmente vani.
Quando esco da Starbucks ne so meno di prima: piove a dirotto, ho dimenticato di chiedere a Jane come posso raggiungere il Kiyomizu-dera, sento l’acqua nelle scarpe, nei capelli, nella gonna, fin nei polmoni – e a quel punto, mentre sono bloccata da dieci minuti sotto un cornicione che mi sgocciola in testa e prego che il tempo cambi, sento uno scatto metallico, una mano che si avvicina alla mia guancia e rimane lì, a mezz’aria. Una vecchietta mi ha aperto l’ombrello proprio sopra la testa e mi accompagna per un tratto di strada, in silenzio. Poi, in giapponese, mi dice qualcosa come “Prendilo, tanto ne ho un altro”.
E così come è comparsa, se ne va.
Rientrata faccio le valigie per l’indomani, mentre aspetto che spiova. Ma l’acqua continua a scorrere fino a sera.
Ora ci sono due alternative – salire sulla collina di Kiyomizu-dera di notte, da sola, nel quartiere deserto, oppure rinunciare alla visita?
Come al solito, delle due scelgo la terza opzione: mi accollo a Raphaël, lo studioso belga che ho conosciuto due giorni prima nella foresta di Arashiyama e lo ammorbo, finché non accetta di venire anche lui. Lo aspetto nel quartiere di Gion, precisamente (e per sbaglio) nella zona a luci rosse. Mi sento un po’ osservata, ma ormai ci ho fatto il callo.
Quando finalmente arriva, percorriamo tutta la salita dei templi e poi di nuovo, la stessa strada, ma in discesa. La notte avvolge il legno e la pietra con le sue mani chiuse e unghie di luce giallastra escono appena dai lampioni a illuminare i gradini. Non bisogna svegliare gli spiriti e i demoni che dormono, per questo non si va ai templi di sera. Ma noi troviamo una festività di cui non sapevamo nulla, lanterne accese, canti, tamburi – e attraversiamo l’oscurità senza paura.