Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno 16
Dopo una serata passata a Osaka, tra il sushi sul rullo che ci serve nigiri di balena, composizioni di tamagoyaki, uova di pesce e molto altro (non meglio identificato), esplorazioni nel quartiere dello shopping, vagolamenti nel mercato centrale e giri fra i canali, non posso che confermare la mia opinione della città: pur essendo a mezz’ora appena da Kyoto, con Kyoto non c’entra proprio niente.
L’atmosfera è talora simile a Tokyo, a volte invece completamente a sé; ha qualcosa di antico e di modernissimo, di radicato al suolo e di cibernetico, di autentico e di turistico – e su tutto questo, l’odore di cibo fritto la fa da padrone. Bancarelle di takoyaki, okonomiyaki (delle specie di frittate con dentro di tutto, carne, pesce, gamberi, e una speciale salsa agrodolce a insaporire), negiyaki (quasi uguale, ma col cipollotto e non il cavolo), yakisoba, ma anche dolci di vario genere e le onnipresenti fragole, glassate, caramellate, infilzate in spiedini, coperte di panna, di cioccolato, nascoste nei daifuku o alternate ai dango… Ma anche polipetti alla brace, capesante arrosto, makizushi e tanto altro – ritrovo persino il melon pan e la mia passione per la città è tale che mi decido a tornare di nuovo il giorno dopo.
[Tra parentesi: la balena non ha un vero sapore, è un po’ come una seppia, ma fatta di burro, se questo ha un senso].
Una delle cose più carine del Giappone è di certo il simbolo delle poste: un gattino che porta per la collottola un altro gattino più piccolo. Ne scorgo diversi, sulle porte scorrevoli degli uffici postali, sulle buche delle lettere e persino sulle camionette dei postini.
Mentre giro per le vie del centro al seguito delle mie amiche americane, che non sono esattamente amiche, sono solo le due americane che ho pescato qualche giorno prima a Kyoto, Layla si domanda quanto possano essere famosi quei cantanti idol che vede esposti su ogni cartellone, anche quelli che tappezzano i grattacieli. Metri e metri di segnaletica luminosa con facce angeliche e capelli biondi tinti.
“Ma chi?”, chiede Madeline.
Layla indica uno dei palazzi su cui campeggiano cinque efebici ragazzi dai sorrisi zuccherosi incastonati in uno schermo al plasma.
“Non è una pubblicità di parrucchieri?”, domanda nuovamente Madeline. E in effetti le colorazioni delle chiome sono al limite dell’impossibile, avrebbe senso.
In questo sono più saggia di loro, perché sono già più di due settimane che sono in Giappone e soprattutto perché la prima settimana risiedevo a Kabukicho: le angeliche creature onnipresenti sui cartelloni pubblicitari e sui maxischermi del centro sono host, truccatissimi, vestiti come dandy di un’epoca e un luogo inesistenti e dalle acconciature che sfidano la gravità e il buonsenso.
Nel corso della permanenza, ho interrogato diverse persone, locali e non, circa il ruolo e la professione degli host e ho poche certezze al riguardo: mi sembra che tutto, come sempre in Giappone, si perda in un vortice di sfumature dettato dal contesto e dalle speciali circostanze in cui l’incontro avviene. Una cosa però è sicura; i bar degli host sono carissimi e pagando i drink (il tuo e il loro, cosa che ti assicura la loro compagnia, almeno per un po’) entri in una specie di classifica, dove il tuo host preferito guadagna punti fino a scalare la vetta e a diventare il volto in cartellone.
[Vicino ai nomi d’arte dei fanciulli viene indicato il loro compenso – ma se si tratti di guadagni a serata, mensili o annui, non è dato sapere].