Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno: 13
Temperature: oltre l’incredibile
Numero di treni presi: molti
Numero di libellule incontrate: +100
Percentuale di atmosfere Ghibli: 200%
Sarò anche un’ingenua (sicuramente sì) o un’amante dei treni (anche qui non c’è smentita), ma poche cose sono meglio del Giappone e una di esse è certamente il Giappone in treno. Forte di questa mia convinzione, pianifico una giornata all’insegna del trasporto pubblico, con l’obiettivo di prendere più treni possibili nell’area di Kyoto.
Ah, se la vita fosse davvero così semplice. La verità è che mi sveglio con un vago sentore – vorrei vedere qualcosa di davvero verde, ma cosa? – che si tramuta in desiderio – mi piacerebbe visitare la foresta di bambù – che si trasforma poi in progetto – andiamo a vedere la foresta di Arashiyama!
Compio il solito rito: colazione al konbini a base di onigiri, bottiglietta di quasitè presa a caso al distributore automatico (becco un quasitè di soba, che mi ricorda molto il sapore della grechka russa) e mi incammino col mio zaino verso la stazione di Tambaguchi, che mi sono erroneamente convinta sia più vicina della stazione centrale.
Dopo diversi minuti che procedo sotto un sole feroce, mi accorgo che la Kyoto che mi aspettavo è svanita davanti i miei occhi pieni di stupore ed è comparsa invece una modernissima, anonima periferia urbana che non somiglia alla nostra italiana, ma non è nemmeno in sé eminentemente giapponese; anzi, mi ricorda un po’ Mosca, so che l’ho già detto, ma è la verità. Se io sono sorpresa, lo stesso si può dire degli abitanti del luogo, che sono sbalorditi – che ci fa una turista in calzoncini rosa e trecce in queste zone?
E in effetti, che ci faccio? Mi sono persa, è chiaro. Deve essere successo quando ho deciso di salire su quel ponte per fare una foto e poi prendere quella traversa che era all’ombra e poi… Sa il diavolo che ho combinato. Marcio ancora un po’ mentre Google Maps, al solito, mi dice che sono in un’area compresa fra Osaka e Rovigo e, per puro caso, così come mi sono persa, ritrovo la strada e salto sul mio treno, il primo della giornata.
Ma non l’ultimo. Arrivata alla fermata Saga-Arashiyama con quell’ora di ritardo che è il mio marchio distintivo (il bello di viaggiare da sola è che nessuno ti sgrida, perché sei cieca di fronte al tempo che scorre), mi accorgo che troppe persone hanno avuto la mia stessa idea. Viaggio in una stagione ancora non turistica, ma la mia idea di abbastanza persone è di circa quattro individui, eccedendo i quali si va nel troppo che stroppia.
Davanti a me, la scelta: accodarmi ai turisti o prendere un altro treno, a caso, non incluso nel mio pass, per le montagne?
Via dalla pazza folla, ovviamente: faccio un biglietto di sola andata, fiduciosa di riuscire a trovare un altro modo di tornare sia esso anche a dorso di mulo e nel giro di poco sono accolta da un lentissimo e strombazzante treno a carbone, relitto a ruote degli inizi del secolo scorso. A bordo, il capotreno ci delizia con aneddoti in giapponese, che non capisco, e alcune canzoni, che non posso fare a meno di sentire; ai lati, dai finestrini, scorre un panorama di acque cristalline, vegetazione fitta e verdissima, spiagge di sabbia e sassi.
Dopo una mezz’ora il treno si ferma. Secondo il cartello turistico siamo alla stazione Torokko Kameoka, secondo la cartina affissa cinquanta metri dopo siamo a Umahori e secondo Google Maps siamo in provincia di Padova. Non ho un’opinione precisa al riguardo e mi incammino fuori, dove campi e risaie si stendono a perdita d’occhio sullo sfondo delle montagne che abbiamo appena attraversato. Ben presto trovo la fermata del treno Umahori, una linea moderna e più rapida che può riportarmi in men che non si dica ad Arashiyama.
Questo, almeno, se io non mi fossi impuntata che voglio scoprire come è fatta Kameoka. Salgo a bordo di un regionale che va nell’altra direzione, inoltrandomi sempre più nella campagna. Raggiungo Kameoka in pochi minuti e una volta lì non so assolutamente cosa dovrei visitare, perché internet mi abbandona completamente. Seguo dunque il corso di un fiume, dove alcuni vecchietti pescano semiaddormentati; scorgo un paio di tartarughe, anch’esse addormentate, su uno scoglio a prendere il sole. E finisco nel parco del castello, che è diventato un luogo di devozione religiosa e che, al modo classico e indiretto giapponese, non ha esattamente un divieto d’accesso, ma nemmeno ti incoraggia.
Mentre mi interrogo se il galateo del monumento nipponico mi stia suggerendo di adottare un atteggiamento silenzioso e rispettoso durante la visita o, come credo, mi stia semplicemente dicendo di non entrare, scorgo un cartello che dice: giardino botanico. In men che non si dica, sono in una specie di ordinatissima foresta, dove le serre sono nel folto di radure e le libellule sono una maggioranza schiacciante. Non credo ci sia nessun rottweiler, anche se il mio cervello continua a suggerirmi il contrario, ma il verde sembra assai popolato di bombi, api, lucertole, insetti mai visti (la cui compagnia senz’altro preferisco). Attacco bottone con due americani, un padre e una figlia. Vengono a Kyoto ogni estate da quando, una volta, molti anni prima, il padre aveva tenuto lì una conferenza.
Perché, domando.
Non lo so, risponde il padre e ride.
Intanto l’aria è rovente e io ho fame. Saluto i miei nuovi conoscenti e compro qualcosa da mangiare – tamago sando, con il suo incredibile ripieno di uovo strapazzato, e delle crocchette di patate e granchio – e torno verso Arashiyama.
Vi arrivo che sono ormai le quattro di pomeriggio. I turisti sono quasi tutti andati via e ben presto capisco il perché: alle quattro e mezza i templi chiudono. Ma io sono lì, perché mi piacciono gli alberi e il bambù e i templi posso guardarli anche da fuori.
Nella mia camminata, finalmente all’ombra, incontro la prima impiegata giapponese non solo nient’affatto solerte, ma proprio scontenta di essere lì. Mi risponde a monosillabi, mi chiede 500 yen, io glieli do ma non so per cosa e vengo condotta a una sala da tè.
Ma io non voglio il tè, protesto debolmente in inglese.
Neanch’io, dice una voce alle mie spalle.
È un ragazzo belga, come me costretto a prendere un tè contro la sua volontà. A questo punto lo invito a sedersi con me al tavolo e cominciamo a chiacchierare. Anche lui viaggia da solo e abbiamo in programma circa lo stesso itinerario, solo a tappe sfalsate. (Nel corso del viaggio ho incontrato qualche viaggiatore solitario, ma finora sono l’unica ragazza). Gli do un paio di dritte su Tokyo e lui mi consiglia di andare a Osaka. Inoltre, siccome è pazzo quanto me, decidiamo di fare l’intero giro del parco, sperando che le scimmie no non ci attacchino, e poi di salire verso il quartiere di case storiche a piedi. Ci perdiamo numerose volte, ma alla fine arriviamo a quest’infilata di casette di legno costruite in pendenza e circondate da meravigliosi giardini. Purtroppo è impossibile scattare fotografie, per rispetto agli abitanti; ma Raphaël, questo il suo nome, è troppo impegnato a studiare l’itinerario di ritorno (sempre a piedi!) verso il centro per lasciarsi abbattere.
Sono circa due ore di tragitto e cammino ininterrottamente dal mattino, quindi, perché no?
Ormai il mal di piedi è una costante, un motivetto di fondo; e così ci mettiamo in marcia. Arriviamo dalle parti di Karasuma che è già sera. Io vorrei andare in un locale in stile izakaya consigliatomi da un amico e così ci dirigiamo con le migliori speranze di questo mondo, solo per avere una (grazie al cielo l’unica) delusione – quello che avevo tanto temuto e di cui avevo letto solo su Quora e Yahoo answers, ovvero veniamo respinti con una scusa. (A Kyoto, i turisti stanno nei loro recinti turistici, i locali fra i locali; è bene ricordarselo.)
Ripieghiamo perciò sul classico Nishiki Market, dove mangio il primo okonomiyaki del viaggio e divido con Raphaël un piatto di soba.