Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno 12
Temperatura percepita: +1000
Tazze di tè: 5
Colazione: patate dolci fritte fredde del giorno prima
Nel mio viaggio, ho fatto un giro esplorativo di tutte le sistemazioni economiche, da quelle pensabili a quelle davvero inconcepibili; soluzioni che a volte hanno un riscontro nella geopolitica degli alloggi nostrana e altre volte invece esistono solo in Giappone. Dai capsule hotel, ostelli dove ogni letto è separato e inserito in capsula privata (contrariamente a quello che potrebbe sembrare, sono comodissimi, non sono claustrofobici e danno un senso di comunità molto confortante per chi viaggia da solo, un po’ come un campeggio assai stretto) ai quasi-capsule – sistemazioni singole più grandi di una classica capsula, ma non quanto una stanza, di cui si ha uno scorcio interessante all’inizio di “Weathering with you” – agli appartamenti ricavati dai garage, passando per una casa di famiglia riadattata a ryokan (ma questo lo vedremo poi), credo di aver visitato ogni esemplare di sottobosco alberghiero che il Paese del Sol Levante possa offrirmi. Il mio budget è piuttosto limitato, dunque, riesco solo a sognarmi sistemazioni favolose in ryokan antichi, monasteri e stazioni termali.
(A questo proposito uno dei miei compagni di camerata nel capsule-hotel di Tokyo mi aveva raccontato di un alloggio presso un santuario, dove si veniva svegliati dal canto dei monaci all’alba. Non ricordo esattamente cosa gli ho risposto, ma devo aver usato parole irripetibile circa l’eventualità di essere destata alle prime luci del giorno da canti buddisti e campane).
In linea di massima, comunque, il Giappone si sta rivelando molto meno caro del previsto. Non solo, ma mangiare costa una cifra ridicola: se non si va al ristorante, ma ci si affida al konbini – vale a dire uno di quei supermercati aperti quasi 24 ore al giorno che dispongono di una vasta selezione di tutto l’umano alimentare a prezzi davvero modici – per tre pasti si spendono facilmente meno di dieci euro; e anche andando a mangiare fuori, se si punta a piatti come gli udon, si riesce a cavarsela facilmente con tremila yen (circa venti euro) per colazione, pranzo e cena.
Ma c’è un ma. Il discorso è applicabile quasi ovunque, eppure a Kyoto l’effetto turismo colpisce di traverso, quando meno te lo aspetti. Facendomi due conti in tasca, scopro che il giorno precedente al Nishiki Market ho speso quindici euro di merenda. I conti non mi tornano, almeno finché non capisco che io, per loro, sono l’equivalente dell’americano che vuole andare in gondola per i canali. Kyoto è una città meta ogni anno di orde di visitatori, sia giapponesi che esteri, e il sovrapprezzo è un’arma per compensare lo squilibrio che il turismo di massa crea in ogni città afflitta dal fenomeno.
Pazienza; risparmierò su altre cose, mi dico, mentre mi avvio verso Karasuma e poi verso il ponte che attraversa il fiume. Arrivo a una piazza dove si erge un complesso di edifici arancioni, che si rivela poi essere lo Yasaka-jinja, all’interno del Parco Maruyama. Lì, manco a farlo apposta, vengo subito coinvolta in una coda, ma quando arrivo al termine scopro che non è la fila per l’ingresso al santuario, ma quella per il chiosco che vende banane ricoperte di cioccolato. Non sarò io a rifiutarne una e proseguo felice la camminata dopo aver consumato (rigorosamente ferma) il mio spuntino ed essermi sciacquata gli immancabili baffi di glassa dal labbro. Procedo fra laghetti, piante fiorite e un cielo che per fortuna si rannuvola, impedendo alla temperatura di crescere ulteriormente, finché non arrivo a una scalinata di pietra proprio al limitare del parco. La imbocco con decisione, fino a uno sportello in legno dove un impiegato che parla solo giapponese e che ho dovuto chiamare, dopo lunga attesa, con un campanello, mi spiega che ci vuole un biglietto per vedere i templi buddisti. Io vado, ci mancherebbe altro, ma due ragazze americane dietro di me rinunciano e imboccano un altro sentiro. Salgo, salgo, salgo all’infinito, passando case dei monaci e luoghi di preghiera, statue di Budda e cimiteri coperti di sterpaglie, mentre i corvi mi volteggiano sulla testa come condor nella Valle della Morte. L’ultimo tratto, mi è parso di capire dal discorso dell’impiegato, ha un bellissimo panorama. Continuo a salire, i corvi mi gracchiano minacciosamente nelle orecchie e io penso: e se cado di sotto?
Sono l’unica persona nel parco, a parte l’impiegato che è un chilometro più giù e comunque è molto restio a rispondere persino al campanello. Non mi fermo, ma la mia mente replica all’infinito la scena di “Stand By Me” in cui ritrovano il bambino morto nel bosco.
Salgo ancora, il sentiero non ha più nulla a cui reggersi e nemmeno un parapetto. E se c’è un serpente? Di geografia io non so davvero nulla, una volta in quinto ginnasio scrissi in una verifica che in Canada c’erano i pinguini; ma non mi sembra improbabile che in una boscaglia pluviale, se mai questa denominazione esiste, si trovi un serpente. Voglio dire, ci sono anche da noi, che non siamo pluviali affatto. Ora, non so se un serpente pluviale sia meglio o peggio di uno non pluviale, però, comincio a sentirmi inquieta.
Sotto di me gorgoglia una fonte, poco più in là una cascata.
E se arriva un rottweiler?
(Ok, abbiamo capito che quello del rottweiler è un problema mio, ne parlerò col mio psicanalista).
A questo punto mi decido a scendere, praticamente di corsa, anche se tutti sanno che –  nell’eventualità remota che si incontri un rottweiler nella foresta pluviale – correre via è una mossa imprudente.
All’uscita trovo di nuovo le due ragazze americane e decido di accodarmi a loro nella visita di un cimitero poco distante. Da lì raggiungiamo a piedi il palazzo imperiale, sotto un sole che è passato dal fare appena capolino allo spaccare le pietre in meno di trenta minuti.
Nel parco del palazzo ci perdiamo, ma veniamo soccorse da un’addetta alle pulizie che ci regala una cartina. Mentre giriamo fra gli edifici, il calore che sale dalla ghiaia rischia di farci collassare. Urge una sosta: perdiamo un po’ di tempo fra le piante all’ombra, in prossimità di uno specchio d’acqua, poi, ci arrendiamo e decidiamo di prendere la via per Karasuma e di rifugiarci al Nishiki Market per rifocillarci e non rischiare l’insolazione. Qui le nostre strade si separano: le due ragazze sono ospiti a una conferenza a Osaka, città a cui fanno ritorno invitandomi a raggiungerle nel giorni seguenti; io rientro al mio alloggio e mi preparo per la sera.
Voglio infatti andare nel primo dei posti consigliatomi da un amico nippofilo che frequenta la città da molto più tempo di me, ma pur cercandolo con tutte le mie forze, grazie alla fantasia di Google Maps che decide di improvvisarsi indovino e mi spedisce di qua e di là, non riesco a trovarlo. Casualmente però mi imbatto nel già citato compagno di camerata del capsule-hotel di Tokyo, incrociandolo con un amico proprio all’altezza di Karasuma. Unendo le forze riusciamo a rintracciare il locale, che è in fondo a un angusto corridoio, all’interno di un edificio, al secondo piano. L’atmosfera è a metà fra un rock ‘n’ roll  con punte vagamente grunge e la scena risolutiva di un film di David Lynch – pareti coperte di poster, fotografie di scena, tende rosse, luci soffuse, tavoli in legno, una coltre di fumo di sigaretta che annebbia la vista e, con mio stupore, pile e pile di pezzi da Jenga. I gestori, che sembrano usciti anch’essi da un film sui Nirvana con attori giapponesi, mi sorridono al di là del bancone. Si mettono in posa, fanno conversazione e intorno a me, mi rendo conto ora, la folla è  mista di gaijin e abitanti del luogo.
Mi sento meglio. Mi siedo anch’io.