Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno 10
In questi resoconti più o meno dettagliati del mio – sconclusionatissimo – viaggio in Giappone, ho dimenticato come al solito di dire le cose più importanti: che viaggio da sola; che in Giappone ho solo quattro amici effettivi e tutti gli altri al traino sono amici, cugini, parenti o vecchi compagni di classe di mie conoscenze e che dunque vedo queste persone per la prima volta; e che il mio giapponese, frutto di appena un mese di studio, mi consente di trovare ospedali, parlare di frittate o negare che qualcuno sia mia madre (la mia vera madre trovandosi in Italia, è qualcosa a cui potrei dover ricorrere, forse), ma non molto altro.
In compenso, so dire frasi come “Quel gatto non sa suonare il piano”, (grazie, Duolingo).
Ora che abbiamo messo in chiaro come e qualmente io sia allo sbaraglio, torniamo pure a Kanazawa, dove mi aspetta la giornata più bella e più difficile. Vengo condotta al piano interrato di un grosso edificio – vogliono ucciderti, direte voi; ma quello che mi attende non è in nessun modo paragonabile all’essere macellati in un sottoscala. La scritta sulla porta scorrevole, poco sopra l’immancabile richiesta di togliersi le scarpe, annuncia: Kimono rental.

 

“Per chi noleggiamo un kimono?”, chiedo, sfoggiando con fierezza dei calzini che ho preso per l’occasione (non mi troveranno più scalza e impreparata).
“Per te”.
Per me?
“Ma io non sono giapponese”, obietto, casomai non fosse chiaro.
“Questo lo sappiamo”.
“Ma l’appropriazione culturale”, dico io.
“Eh?”, dicono loro.
E il discorso si chiude qui.
Non appropriarsi delle culture degli altri è sempre buona creanza. Ancora miglior creanza è non rifiutare l’oggetto di una cultura se a offrirtelo è un rappresentante della cultura stessa, o almeno credo, così accetto di buon grado una lunga cerimonia di vestizione a cui avevo assistito finora solo come osservatrice (mi è capitato, fra le mille cose, di vendere kimono). Vengo prima avvolta in una specie di sottoveste leggera, di un bianco irreale; la ragazza che mi aiuta – o meglio, che fa tutto il lavoro; io sono ferma immobile, gambe e braccia a quattro di bastoni, mentre mi impacchettano come un provolone Auricchio – mi gira intorno come una trottola, sovrapponendo strati su strati e mantenendoli in posizione con le sue dita candide. Poi interviene con un’apposita molletta (non saprei come altro chiamarla) a tenere saldo il tutto.
Scelgo uno yukata chiaro, a fiori verdi e viola, e un obi che richiama il colore del motivo, e aspetto che il miracolo si compia.
[No, in Giappone non esiste l’appropriazione culturale, sulla base di due principi: 1. L’imitazione è una forma di ammirazione, tra l’altro motivo per il quale nessuno si arrabbia se gli copiano un’idea o un’invenzione; 2. La cultura giapponese è viva e rigogliosa e indossare un abito tradizionale è considerato un tributo a essa, non un furto.]
A questo punto, vengo condotta con le mie calze tabi e i miei geta a spasso per le vie della città vecchia. Kanazawa conserva ancora gli antichi quartieri dei piaceri, con le caratteristiche abitazioni di legno e la parte di epoca Edo della città ha un fascino che finora non avevo incontrato. Visitiamo anche l’abitazione, perfettamente conservata, detta “casa del samurai”, un museo di arte contemporanea e la dimora di Kyoka Izumi e faccio un figurone, dimostrando di sapere chi è. Quello che ometto, invece, è che lo conosco per il personaggio di “Bungou stray dogs” – nella vita, non c’è bisogno di dire sempre tutto.
Per fortuna non piove, direte voi; è vero, ma la temperatura è salita rapidamente a ventotto gradi, percepiti centoundici, e comincio a capire il mio amico Kentaro quando (con il classico understatement giapponese) aveva buttato lì come per caso una frase sulla possibilità di acquistare indumenti traspiranti. Grazie al cielo non sono una che suda molto, altrimenti avrei restituito il kimono intriso del novanta per cento dei miei umori corporei.
La passeggiata è inframmezzata di alcune (molte) soste per il tè con i dolcetti: macha, bocha, hojicha, perdo il conto, ma comincio a sentirmi un po’ frenetica. A un altro tempio ricevo una nuova predizione: stavolta non disgraziata come la precedente, bensì chiara sul fatto che o presto incontrerò la mia metà o esiste già qualcuno che mi ama segretamente. È anche perentoria: non posso sposare questa fantomatica persona prima di tre anni, ma non credo si corrano rischi in tal senso.
L’ultima tappa della giornata è all’ultimo piano del Nikko hotel, dove mangiamo Teppanyaki con vista sull’intera città. Vedo preparare la carne davanti ai miei occhi esterrefatti, piatti della tradizione accanto a commistioni, invenzioni, fusioni culinarie – non ho mai visto tanta bellezza nel cibo e anche i sapori mi lasciano estasiata -, imitando come sempre i miei anfitrioni per capire come mangiare. Sono così emozionata e frastornata insieme che l’unica frase che ho il coraggio di esclamare in tutta la serata (e avrei fatto meglio a stare zitta, visto che non è la più intelligente) è “Ma qui c’è del parmigiano!”, mentre porto alla bocca un boccone guarnito di una salsa misteriosa.
Dall’altra parte del bancone, il sensei abbozza un sorriso appena percettibile.
C’è davvero del parmigiano, nella salsa.