Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno: 9
Ore di sonno: otto, tranquille come quelle di un bambino
Notifiche dall’app catastrofi naturali: +cinque
Mi risveglio nel mio – davvero molto spartano – appartamento, che è una versione deliziosamente arredata di un garage, con una sfilza infinita di allerte meteo sulla città di Kanazawa: allarme tempesta, allarme fulmini, allarme esondazione, allarme alluvione. Per tutta la notte il mio telefono ha vibrato e squillato e, a quanto mi dicono le vicine, le pareti e i vetri sono stati squassati da una terribile bufera. In particolare, il fiume ha rischiato di esondare, cosa che avrebbe dovuto almeno farmi alzare un sopracciglio dato che io sono a Ishikawa, l’isolotto cinto dai due corsi d’acqua in cui il fiume si divide prima di sboccare nel mare.
Io però non ho sentito nulla. Metto timidamente un piede fuori dalla stanza (sono ovviamente al piano terra), ma fuori sembra tutto tranquillo. Per sicurezza, rileggo le direttive del governo in caso di catastrofe pensate per i turisti (ci sono davvero e conviene leggersele prima, soprattutto il punto che dice circa “Accettare che la morte è una parte della vita”), metto tutte le valigie in alto, mi vesto in modo appropriato e soprattutto infilo il mio JR pass in una cartellina impermeabile – le mie priorità sono decisamente al contrario, ma in fondo che importa.
Hiro-san mi viene a prendere poco dopo, minimizzando i rischi: a quanto pare, smetterà di piovere alle quattro in punto, o almeno così predice il servizio metro giapponese, e chi siamo noi per contraddirlo?
Nel corso della mia seconda giornata a Kanazawa, capisco che i giapponesi la parola turista la fanno derivare da tour de force. Prima tappa dolci con tè macha, poi, subito il castello di Kanazawa, dove ci togliamo le scarpe (i lacci sono stretti e io causo un notevole rallentamento nella fila). È bello passeggiare sul legno coi piedi nudi, sì, nudi, perché ho dimenticato i calzini: questo dettaglio teniamolo a mente, perché ci accompagnerà per tutta la permanenza a Kanazawa. Il castello, mi spiega Hiro-san, è stato interamente ricostruito sui disegni originali dopo che l’avevano buttato giù per ordine dell’imperatore, che voleva occidentalizzare l’aspetto della città. Ho appena il tempo di assimilare l’informazione, ma l’orologio batte le undici e trenta: si avvicina il mezzogiorno e noi siamo attesi al mercato del pesce della città, dove ci aspetta un kaisen don di pesce locale appena pescato. Non so se sia freschissimo o regolarmente abbattuto e non mi interessa: sono pronta a correre il rischio.
E vale davvero la pena. Uso il metodo di sempre, cioè mangiare per seconda, seguendo l’esatto ordine in cui Hiro-san porta alla bocca il cibo e imitandone per quanto possibile i gesti. A differenza di Tokyo, dove gli stranieri non sono moltissimi, ma sono comunque uno spettacolo abbastanza usuale, a Kanazawa i turisti esteri sono piuttosto rari e, ovunque vada, desto non poca sensazione. Tutto sommato però è un’attenzione non ostile, una specie di intensa curiosità – e in questo spirito leggo il tentativo della padrona del locale di appiopparmi una forchetta.
Sono ormai lontani i tempi in cui facevo volare con le bacchette pezzi di cavolo per la stanza: questa volta tiro su in un colpo solo le famose alghe da tirare su in un colpo solo e divoro con assoluta precisione il pesce – esattamente come andrebbe mangiato. Non solo, ma, ricordandomi le tradizioni scaramantiche che mi ha raccontato un’amica nippofila prima della partenza, per non rischiare, finisco fino all’ultimo chicco di riso.
Dal mercato torniamo verso Kenroku-en, il parco in stile giapponese, pieno di piante, fiori, corsi d’acqua. Mentre andiamo, ci fermiamo a un santuario a farci fare una predizione (la seconda del mio viaggio): la mia, pare, non è una grande fortuna, ma almeno – dice Hiro-san – non è una disgrazia. Non posso dargli torto e annuisco. Ascolto la sua traduzione della predizione e scopro che se continuo a faticare, le cose andranno bene.
All’ingresso di Kenroku-en prendiamo la seconda tazza di macha della giornata, in una splendida sala da tè in stile tradizionale che affaccia sul giardino e in cui – di nuovo – mi ritrovo completamente scalza. Devo comprarmi dei calzini, penso, mentre sorseggio il tè e mangio adorabili dolcetti rosa e zuccherosi.
Il parco è splendido ed è una delle ragioni per cui volevo passare per Kanazawa; ma più resto e più capisco che maggiore di quella del cuore è la volontà dello stomaco. Verso le sette ci attendono in un ristorante specializzato in piatti a base di soia. Tofu di cento tipi diversi e, poi, zuppe, salse, antipasti di ogni forma e genere…
Questa volta non sono affatto timida e scatto fotografie a scopo documentario.
Dopo una cena di ottocento portate che fa vacillare – ma non abbatte del tutto – la mia capacità di ingurgitare cibo, esprimo il desiderio di andare a vedere la cerimonia in cui rilasciano le hotaru (lucciole), proprio accanto al parco. Ci dirigiamo con le migliori intenzioni al giardino dove si terrà il festival, ma veniamo respinti dalle raffiche di un violento temporale.
Peccato; riproveremo l’indomani.
Aggiunta doverosa: la pioggia, rispettosamente, ha obbedito al servizio meteorologico giapponese e ha smesso proprio alle quattro in punto. Poi ha ricominciato, ma questo è un altro discorso.