Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable

Giorno 8

Onigiri consumati: due

Tazze di tè: +sette

È il grande giorno – oggi lascio Tokyo per Kanazawa, dove sarò ospite da amici. Mi sento un po’ triste, come se della città non avessi visto abbastanza e sapessi che mi mancherà. Ci sono rimasta una settimana intera, è il primo luogo del Giappone che ho visitato e – soprattutto – mi ha accolta magnificamente. Lungo la strada prendo un taiyaki con il ripieno di azuki e poi mi dirigo verso la stazione.

Da Tokyo a Kanazawa sono poco meno di tre ore sul treno Hokuriku, uno shinkansen non speditissimo, ma con deliziose tendine (ne abbiamo già parlato, delle tendine degli shinkansen, vero?). Mentalmente, chissà per quale ragione, cambio le parole della canzone “Cocorito” in “Hokuriku, Hokuriku, è ‘nu viecchie pappavalle” e questo motivetto non mi abbandona più per le due ore successive. Sono stranamente euforica, quasi sapessi già quello che mi aspetta.
Sì, perché è inutile girarci attorno: a Kanazawa non ho fatto altro che mangiare. Cinque minuti dopo il mio arrivo in stazione (mi vengono a prendere con un macchinone con i fari e spazio per ospitare una festa da ballo, il che solleva una questione – a parte per venire a scarrozzare me, quando mai la usano un’auto così, se in Giappone le strade sono praticamente vuote?) sto già affondando i denti in un altro taiyaki, questa volta croissant. Avete capito bene: la forma è sempre quella classica del pesce, il ripieno è l’usuale crema di azuki, ma la pasta non è cialda bensì brioche. Sono estasiata e penso che non possa andarmi meglio di così.
E, ovviamente, mi sbaglio. Subito dopo il taiyaki, mi viene dato il programma delle giornate. In realtà me l’avevano già comunicato almeno tre volte, circa un mese fa – i giapponesi, non essendo molto espansivi nelle parole e nei gesti, mostrano il loro affetto attraverso la scrupolosa organizzazione. Secondo la tabella di marcia, dopo una tappa per il primo tè macha del viaggio – ma non l’ultimo -, accompagnato da dei dolcetti un po’ zuccherosi e bianchi a base di riso con deliziosi disegni floreali sulla superficie, la cena che ci aspetta è sushi.
A Tokyo mi avevano avvertita: quando hai provato il sushi a Kanazawa, non riesci a mangiarlo altrove. E c’è da prenderli in parola. Dopo un giro assai breve del centro cittadino con ricorrenti pause dolcetto, arriviamo alla nostra agognata prenotazione delle 19, una delle poche volte in Giappone in cui ho cenato a un’ora che si prestasse alla cena e non a una cospicua merenda. Il ristorante si trova all’interno di un hotel e, dagli stucchi d’oro e dai lampadari di cristallo, capisco che dev’essere piuttosto rinomato. Grazie al cielo non dobbiamo togliere le scarpe: mi sono appena accorta che mi si sono bucati i calzini. Ci sediamo al bancone, a un passo dai coltelli e dagli utensili da cucina che sono là, appena oltre la superficie di legno. A parte me, sono tutti giapponesi e sento nei loro sguardi una certa curiosità. Ripenso ai buchi nei miei calzini, ma è solo un istante: davanti a me vengono preparati e serviti nigiri e maki di pesci che non conosco [“Solo pesce locale”, mi dice in inglese Hiro-san, che mi accompagna quella sera e che purtroppo non conosce i nomi di tutte le creature marine in quella lingua], ma anche una zuppa – non è miso ma ci somiglia un po’. Poi arrivano ancora di quelle alghe che andrebbero tirate su in un colpo solo (mi sto perfezionando), dopodiché è il turno delle anguille e del tako (polpo).
Inizialmente mi vergogno, ma poi chiedo nel mio giapponese zoppicante, se posso fare una foto. Pare che non ci siano problemi e riesco così a documentare in parte la mia cena, ma la verità è che sono troppo impegnata a far lavorare le mandibole per pensare ad altro. Da bere ho ordinato vino di ume (prugne), tanto l’acqua è sempre inclusa, e Hiro-san mi fa portare del tè (bocha, a quanto mi dice). Con stupore mi accorgo che alla fine del mio bicchiere di vino di prugne comincio a capire qualcosa della conversazione; ma forse è solo la voce del mio stomaco, che mi incoraggia a mangiare.