Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable

Giorno 2 (che dovrebbe chiamarsi giorno 1 visto che il giorno 1 avevo addosso venti ore di viaggio e il lutto per la mia scatola di biscotti sbriciolata nella stiva di Etihad – ma non ci fossilizziamo).
Ore di sonno: abbastanza, grazie.
Pagine di guida sfogliate: 6, poi mi sono tagliata con la carta.
Onigiri da asporto: 4, compreso uno che pensavo fosse tonno e invece è la maledetta prugna sott’aceto o quel che è (e ho assaggiato il nattou! È buono, per essere soia fermentata acidognola e piena di roba appiccicosa, d’altronde noi ci mangiamo il formaggio coi vermi e tant’è, facciamo poco gli spiritosi).
Collegiali in uniforme incontrati: 8 marinaretti, 3 liceali.
Ombrelli parasole: 4, ma sospetto che siano comuni ombrelli da pioggia riconsiderati per diversa missione.

La giornata comincia col botto, nel senso che appena sveglia mi convinco che c’è un terremoto (circostanza non del tutto improbabile ma in questo caso sbagliata) e mi tiro su di scatto, dando una capocciata al soffitto del capsule hotel in cui risiedo. Per chi non c’è mai stato, è una specie di ostello, solo che non ci sono camerate, bensì un complesso sistema di letti incassati in – appunto – capsule. Ne avevo sentito già parlare negli anni ’90, dalla fonte più attendibile di sempre: il Topolino.

Sconsigliatomi da molti, in realtà è un posto meraviglioso: anzitutto, è costruito non sopra, non accanto, ma dentro una libreria; sulle pareti ci sono libri, light novel e manga di ogni genere (si possono leggere, a patto di sapere il giapponese). Inoltre, nella sala comune, sono disponibili anche dei testi in inglese, alcuni volumi di fotografia e un suggestivo insieme di tavole a fumetti pendenti dal soffitto.
Testate a parte (di cui sono interamente responsabile), è un posto magnifico dove alloggiare, e inoltre ha posto per il mio nuovo, grande amore: i gabinetti con l’asse riscaldato. [Hanno anche alcuni pulsanti con qualcosa che forse è kanji, forse solo disegnini stilizzati, e direzionano il getto di un possibile bidet, alzano e abbassano la tavoletta, dirigono missili spaziali – le solite cose, insomma.]
Se ne deduce una cosa sola, cioè che in questa vacanza anche i bagni pubblici di un ostello sono più organizzati di me.

 

Accompagno un’amica cinese a un colloquio di lavoro. L’ho conosciuta il giorno prima, lei parla poco inglese e io in cinese so giusto giusto ordinare al ristorante, e per di più solo le uova, che nemmeno mi piacciono; ma in qualche modo ci capiamo. Abbiamo girato insieme, entrambe stordite da un lungo viaggio, le vie di Kabukicho alla ricerca di qualcosa da mangiare; siamo entrate in un’izakaya a Omoide Yokocho, che vuol dire circa il vicolo dei ricordi, ed è una traccia della vecchia Tokyo, piccolo, angusto, con deliziose lanterne. L’izakaya è una locanda, appena tre tavoli, abbiamo mangiato takoyaki e dei triangoli di verdure fritte che non so come si chiamano. E ora non so come ma mi sono un po’ autoinvitata al suo colloquio, non che andrò proprio nella stanza a sostenerlo insieme a lei, ecco, ma intanto le do una mano a trovare la giusta linea metropolitana alla stazione di Shinjuku.
Dice bene chi sostiene che per vedere Tokyo ci vogliono almeno due settimane: la seconda per visitare la città, la prima per trovare la giusta uscita da Shinjuku.
Comunque la lascio andare, alla fine è giusto così. Sono senza telefono, perché non avevo un caricatore adatto al Giappone e l’ho recuperato solo quella mattina, dunque lascio il cellulare in carica in hotel, pensando che tanto farò solo il giro del quartiere – che mai può succedere?
Succede che al posto di fare il giro del quartiere cambio idea e mi sparo quaranta minuti di Yamanote line, arrivo ad Akihabara, ci sono ottanta gradi all’ombra e ancora non piove, in barba alle previsioni; mi perdo, mi perdo, mi perdo, ritrovo la strada, mi perdo di nuovo e finisco in un parchetto insieme a un nonnino che beve alle 11 del mattino e a un angelo, nelle vesti di uno studente che non ha voglia di studiare e mi riporta praticamente per mano alla metropolitana (speriamo che poi il suo esame sia andato bene). Visto che non fa parte del mio abbonamento, si offre anche di comprarmi lui il biglietto, e solo dopo lunghe contrattazioni accetta che io lo paghi da sola. Prima però mi reco a un tempio shintoista, dove cerco di ricordarmi l’ordine di inchini e battiti di mani per fare la preghiera; ma ci metto un po’ troppo, e finisco per sbaglio dentro alle foto di un matrimonio.
I sumimasen (“scusate”) si sprecano, ma tant’è: sono lanciatissima, faccio un giro anche dalle parti di Ueno, vedo il giardino e penso anche di noleggiare uno dei pedalò a forma di cigno con cui solcare impavida e fiera le acque del laghetto. Ma mi ricordo che non ho il telefono, non so che ore sono e soprattutto ho un appuntamento con la mia amica di penna Tomoe, non so bene né dove né quando, ma sicuramente oggi.
Torno di corsa in hotel, prendo gli unici biscotti superstiti al massacro della stiva Etihad e glieli porto come omiyage (“pensierino”) fino forse a Chigasaki, forse Hiratsuka, non ho ancora capito dove dovrò scendere. Non trovo la metropolitana (di nuovo!) e, senza telefono, non mi resta che chiedere a una signora giapponese la strada. Il problema è che io so porre le domande (male), ma non capisco le risposte. Assecondo dunque la teoria che afferma come si possa sostenere un’intera conversazione solo con le espressioni “sou desu” (proprio così), “sou desu yo” (“ecco, è proprio così”) e “sou desu ne” (proprio così, vero?) – e in effetti i primi quindici minuti scivolano via senza un intoppo, anche se non ho idea di cosa abbiamo parlato.
Fino a Chigasaki è circa un’ora e mezza da Shinjuku, passando per Shiragawa e poi prendendo una specie di passante che va fino a Yokohama e poi la supera per raggiungere Atami. Lì andiamo insieme a un altro tempio shintoista, stavolta per ricevere una predizione.
Visto che il periodo non è dei migliori, la mia implicita domanda è quando smetterò di fare tutta questa fatica. Prendo uno dei fogli rosa con un cavallo disegnato sopra e lo stendo sulla bacinella, dove magicamente appaiono dei caratteri. Il nonnino custode dell’altare mi sorride, e attacca a parlarmi in giapponese, compiaciutissimo – ma qui non c’è sou desu ne che tenga, perché io con i kanji sono una pippa assoluta. Tomoe allora mi spiega che la risposta alla lettera significa
“Continuare a impegnarsi è potere” – cioè continua a faticare che è meglio.
Poi ce ne andiamo al karaoke, dove mi esibisco in alcune versioni storpiate delle sigle di “Evangelion”, “Maison Ikkoku” e “Demon Slayer”, ma prima godo anche di uno sprazzo di umorismo giapponese – mentre ce ne andiamo, la mia amica ringrazia il signore che conserva il tempio, pagandolo il dovuto, circa duecento yen (poco più di un euro), e commenta: così il nonnino può continuare con le scommesse.
Come previsto, con costanti variazioni, dal meteo nipponico, appena scendo dal treno mi cade sulla testa tutta l’acqua del mondo. E voi direte: embè, tu sei a due passi da Shinjuku, che ti fanno due gocce d’acqua? Ma ovviamente io ho deciso che volevo fare un salto a Shibuya, tanto è attaccata, ma l’esito del mio salto è solo un grande roboante splash, io non ho l’ombrello, ho le scarpe di tela, e inoltre ho fame, e a quell’ora tarda della sera mi sento un po’ idrosolubile – mi precipito in un centro commerciale e compro un daifuku con la fragola, e già che ci sono attacco un bottone clamoroso in un giapponese inventato, una conversazione senza sbocchi dove nessuno capisce nessuno e al termine della quale mi regalano dei dango perché “è bello incontrare italiani in vacanza”.