Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno 18 e 19
Treni presi: 1
Temperature: 29-32
Percepiti: 40
Onigiri consumati: 3
Città visitate: Tokyo, di nuovo, ma questa volta sono a Taito
La mattina me la passo con le valigie al traino fra la stazione di Kyoto, dove compro onigiri all’umeboshi e all’alga konbu, e il treno che in appena tre ore mi riporterà alla stazione di Tokyo. Questa volta sarò nella zona est, più vicina al mare, e soprattutto ad Asakusa, che è una delle poche zone della città che ancora non ho visitato.
Dal finestrino, posso vedere durante il tragitto il monte Fuji in tutto il suo splendore o, meglio, potrei, se non avessi sbagliato lato. Mi alzo comunque in modo generico, fingendo di passeggiare, e mi inclino diagonalmente come una torre di Pisa, incombendo sui passeggeri che hanno scelto il posto giusto finché non scorgo anch’io la mia porzione di montagna.
All’arrivo, faccio appena in tempo a sistemarmi nel ryokan vicino a Ueno dove alloggerò per gli ultimi quattro giorni che mi arriva un messaggio – è il tipo dell’appuntamento (per chi se lo fosse perso, spiego tutto nella puntata precedente). Devo truccarmi, pettinarmi, no, forse è meglio lavarsi prima: non ho il bagno in camera e per raggiungerlo devo scavalcare un complesso sistema di panni e asciugatrici, ma alla fine già che ci sono mi lavo pure i capelli.
L’aria del Giappone mi rende incantevole: ho la pelle bianca e luminosa, stare all’aperto ha eliminato ogni traccia di occhiaia o colorito verdastro, se riesco a mettermi due scarpe uguali direi che sono in una botte di ferro. Vado a piedi fino alla fermata di Ueno, attraversando il parco e perdendomi (teniamolo da conto questo dettaglio perché ci servirà); approfitto per comprare un rossetto, che tanto costa 400 yen (circa 3 euro), e poi il mio occhio cade sulle mie unghie. Santo cielo. Che è successo? È come se lo smalto fosse stato trascinato via per i piedi da un serial killer deciso a rinchiuderlo in un mattatoio. È tutto striature e chiazze inquietanti. Già che ci sono compro una bottiglia di acetone.
E dove me lo tolgo lo smalto? Accanto alla metropolitana c’è uno spiazzo in asfalto e decido di sedermi lì, in mezzo alla folla del venerdì sera, alcuni con le birre, altri col cruciverba e io con il mio solvente chimico. Noto un paio di sguardi confusi, ma non posso perdere tempo con queste cose – qui la situazione è drammatica e in meno di mezz’ora devo essere ad Akasaka.
Sono stata invitata al seguente appuntamento: in un ristorante noto per essere stato il preferito dell’ex primo ministro (ma quello che è morto sparato?), nell’elegante zona di Shinjuku che confina con Yotsuya. Io adoro quell’area, mi piacciono le piante, la distesa d’acqua che le costeggia, la vicinanza con il palazzo imperiale e le miriadi di luci che si accendono la notte.
E ora che il mio smalto non sembra più  la prima vittima di un film dell’orrore, posso avventurarmi senza paura.
Il ragazzo con cui ho l’appuntamento e di cui ignoro il nome, l’età, il lavoro e come scoprirò nel giro di poco anche la nazionalità, mi aspetta fuori dalla fermata. Ha quell’aspetto indefinibile giapponese, per cui potrebbe avere dai 20 ai 40 anni; ha una camicia, le braccia magre, un orologio, un certo numero di anelli e si offre di portare la mia borsa (per i più esperti: qui avrei dovuto capire).
[Notazione necessaria: no, non era un borseggiatore.]
Mi scorta nel ristorante, dice cose giapponesi alla signora altrettanto giapponese che gestisce il locale e nel giro di qualche secondo cominciano a fioccare antipasti – quello della casa, che ci tocca come consuetudine, ma poi alghe, sashimi, miso, tamagoyaki, tempura e per finire tre diversi tipi di soba.
Io lascio che sia lui a ordinare, tanto non so nemmeno il nome dei piatti; ma nel frattempo arriva una bottiglia di sakè, due birre e io centellino la mia quantità d’alcol, mentre mangio a quattro palmenti, mentre lui scola bicchiere dopo bicchiere. Non pago, ordina anche il saké caldo – “Questo lo devi provare” – e continua a versare. Io non sono una gran bevitrice e non faccio nemmeno finta di tenere il passo:  mi concentro sulla soba che oppone strenua resistenza alle mie bacchette e intanto cerco di fare conversazione.
“Ti chiami…”, accenno, ma non mi ricordo.
“Kazu”, risponde lui.
“Sì, certo”, annuisco, sollevata. “Kazu come Kazuma?”.
“Come Kazuhito”, ribadisce lui, continuando a versarsi da bere.
Kazuhito? Questo nome non l’ho mai sentito.
“Che bel nome”, tubo, dato che non so proprio come andare avanti. “E che significato ha?”.
Segue una complessa spiegazione di kanji dal che desumo che il senso complessivo del nome sia: Armonia.
“Splendido”, proseguo, come se sapessi di cosa sto parlando. “E ti ci rivedi?”.
“No”.
“Ah” . Mi sto arenando, è innegabile. “Se potessi scegliere tu il tuo nome allora quale sarebbe?”.
“In realtà il mio nome me lo sono scelto da solo”, risponde tranquillamente. Io sorrido, ma il sorriso mi si congela in un ghigno – in che senso se l’è scelto da solo,e quando? Alla nascita?
“Sì”, prosegue lui, “a diciott’anni, quando ho chiesto la cittadinanza giapponese”.
“Non sei giapponese?”.
“Sono coreano” e da lì parte una lunga e complessa vicenda familiare che vede protagonista una famiglia di coreani giapponesi di seconda e terza generazione e che comincia con “Il mio vero nome è Taehyung” e termina con “Ed è così che, da quando li ho portati in tribunale, non parlo più con i miei genitori” – e io a quel punto sono davvero smarrita e rimpiango di non aver bevuto un po’ di quel saké.
La serata finisce in modo se possibile ancora più strambo: siamo gli ultimi rimasti nel ristorante, benché siano appena le 22 e la signora ci invita gentilmente ad andarcene. Usciamo e lui mi dice in inglese: “Should we go back?”.
Io sono disorientata e penso che sia un modo educato per dire che per lui la serata è finita, dunque dico solo: Certo e mi incammino verso la metropolitana (lui invece prenderà un taxi per andare a casa).
Arriverò a Ueno e mi perderò per circa un’ora nel parco venendo avvicinata da chiunque con le scuse più assurde, ma mi rimarrà il quesito: dal momento che sembrava divertirsi, la brusca conclusione della serata è dovuta a
A) una mia incomprensione: avrei dovuto insistere
B) un misterioso cerimoniale coreano
C) tutto il suo interesse era farsi vedere in giro con una ragazza occidentale
D) il fatto che a casa qualcuno lo aspetta
Non lo sapremo mai, probabilmente. Ma la domanda mi accompagna anche il giorno seguente, mentre passeggio per Yanaka e vi trovo un mercato, mentre valuto con cura le stoffe dei kimono e persino mentre li acquisto (per tremila yen, solo perché sono usati).
Yanaka è fra i miei quartieri preferiti a Tokyo e lo esploro da cima a fondo, tornando dalla mia amica Myo al suo negozio di caramelle, attraversando il cimitero e l’infilata di negozietti antichi e poi sbucando di nuovo al parco di Ueno, con il suo laghetto con le ninfee e i pedalò a forma di cigno. Che è proprio dove ho conosciuto Kazu, ora che ci penso e tutto questo adesso mi pare uno strano musubi, per citare i film di Makoto Shinkai.
Ah, Kazuhito/Taehyung: di te non ho capito niente, e forse è meglio così.