Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno: 14
Nella mia vita non posso dire di aver preso le migliori decisioni quando ero arrabbiata, ma questo non mi ha mai fermata, né ha evitato che io ne prendessi altre nei momenti in cui il mio stato mentale era stabile come un albume montato senza Bimby e sereno come un esorcista a un picnic di satanisti. Perché questo preambolo? Per spiegare perché, dopo essermi offesa con la città di Kyoto (sí, l’intera entità architettonica compresa di cittadini, piccioni, corvi, alberi e macchinette del tè a 100 yen), il giorno seguente ho drasticamente cambiato il mio itinerario.
[Per scoprire le ragioni della mia scelta, conviene tornare al giorno 13.]
Kyoto mi bolla come turista domenicale, ignora i miei sforzi di parlare giapponese (sforzi davvero bestiali e dagli esiti ridicoli, il che mi ferisce doppiamente), rimbalzando i miei tentativi di entrare nei locali dove mangiano gli autoctoni? E io allora me ne vado a Osaka!
Dista appena trenta minuti col treno veloce e ho ascoltato mirabolanti racconti di osakesi (si dirà così?) che accolgono amici gridando “Non disturbateci!” come formula di cortesia o fermano passanti chiedendogli dove hanno comprato quel bel vestito e a quanto. Non so se siano veri o solo leggende metropolitane, ma tanto vale scoprirlo.
Il caldo è incredibile, sembra un flubber di vapore acqueo che si infila dai pori fino alle costole e fa sudare anche gli organi interni; ma sul treno l’aria condizionata ibernerebbe un pinguino, quindi finché non scendo siamo a posto.
La cosa più strana è che sembra una metropolitana dal tragitto lungo e in un certo senso lo è – i sedili sono disposti lungo le pareti e non due a due e la maggior parte dei passeggeri (me compresa) si fa l’intero percorso in piedi, tenendosi a una maniglia sospesa.
Appena viene annunciata la stazione di Osaka, capisco che questa città è per forza di cose un Giappone nel Giappone o, meglio, un antigiappone. A Tokyo, tutti tengono sempre la sinistra, a qualsiasi costo, sulle scale mobili come per strada; a Kyoto vedi una timida inclinazione verso la sinistra, ma niente di obbligatorio e rigido, è qualcosa più dettato dal contesto; ma a Osaka, a Osaka nessuno vuole saperne della sinistra, a Osaka si mettono tutti pervicacemente sulla destra, come se fossimo in Europa, e chi non è abituato (io) rischia un buon numero di incontri troppo ravvicinati coi passanti contro cui sbatte. Il tono di voce è più alto, le facce sono più allegre e per la prima volta vedo dei sacchetti di spazzatura, ordinatamente disposti sì, ma sul marciapiede, in attesa che qualcuno li raccatti.
Vago un po’ alla cieca, aspettando che le ragazze americane che ho conosciuto qualche giorno prima mi dicano se riescono a liberarsi per cena (spoiler: no), strisciando sotto l’ombra e godendomi i pochi sprazzi di aria condizionata. Per disperazione mi infilo in un Family Mart e prendo un onigiri con l’alga konbu che è il mio preferito ormai. Giro per un quartiere di casette di legno, dove noto una strana insegna: se non ho letto male, indica la presenza di bambini e il sottotesto è qualcosa come “prima di rapinarci, sappiate chi rapinate”. Non so se funzioni, ma ha un bellissimo coniglio disegnato sopra e per me è promosso.
Google Maps si è un po’ ripreso rispetto a ieri; non crede più d’essere in Veneto, ma la sua precisione ha un’approssimazione di cento metri, quindi mi fa comunque sbagliare strada. Sto cercando di andare al mercato di Osaka, che è enorme e tentacolare, una specie di gorgo in cui non si può non finire risucchiati – tranne me, a quanto pare, visto che non riesco a trovarlo. Mi fermo in un viottolo a osservare dei kimono di seconda mano, ma vengo conquistata dal prepotente odore agrodolce che viene da un banchetto.
Ebbene sì: takoyaki! Osservo i prezzi. Non è possibile. O sono ubriaca o hanno sbagliato. Sei takoyaki, 300 yen, cioè due euro. I takoyaki sono polpette di polpo fritte in salsa di soia agrodolce e li ho visti a Kyoto a 900 yen. Accanto vedo un okonomiyaki e il prezzo: 150 yen (un euro). Il dio dei viaggiatori ha appena deciso il mio pranzo.
Mangio con soddisfazione, chiedendomi fra me e me come si mangerà al famoso mercato di Osaka. Attraverso banchetti, negozietti con esposizione esterna, carrettini di dango con le fragole o in salsa mitarashi e ichigo daifuku e arrivo, camminando sempre dritto al ponte sul fiume, non lontano dal quale c’è il castello di Osaka. Ed è in quel momento che realizzo che quell’insieme di carretti, banchetti e tavolini da cui mi sono allontanata è il mercato di Osaka; chissà come ho fatto a non capirlo subito, Google Maps si deve essere inceppato, perché sosteneva che io fossi da tutt’altra parte.
Il caldo è infernale, perciò dopo la visita al castello passeggio nel parco osservando il fiume e un paio di scoiattoli che vengono a giocare vicino a me, ma sento le palpebre che si chiudono. Meglio dirigersi verso la stazione e tornare a casa sana e salva.
Prendo una strada che mi permette di attraversare alcuni ponti e osservare la città che si affaccia sul fiume. Con Kyoto non c’entra proprio niente, mi ricorda più Tokyo, ma l’atmosfera è conviviale, amichevole.
Questo comunque non mi impedisce di perdermi per circa quaranta minuti sulla linea circolare di Osaka, un loop infinito dal quale non riesco più a uscire.
Un’ora dopo imbrocco finalmente il modo per arrivare alla stazione, non quella dove sono arrivata ma una a caso, dove una linea lentissima mi riconduce a Kyoto in un’ora e dieci.
[Questa volta, però, mi siedo.]