Possiamo parlare di Natura quando facciamo riferimento all’affascinante ricerca di Ambra Castagnetti (@ambra_castagnetti_kos)? Animate da un ritmo spiazzante ed in parte violento, le forme seducenti e allo stesso tempo inquietanti delle sue opere abitano un microcosmo in cui i termini biologia ed ecologia sono riletti secondo il concetto di intreccio, tra sintetico e naturale, e metamorfosi, continua ed inevitabile.
Osservando i tuoi lavori si comprende come il concetto di intreccio sia uno dei temi principali della tua prassi artistica, in particolar modo quello tra elementi naturali ed elementi artificiali; ti andrebbe di approfondire questo aspetto?
Un concetto fondamentale all’interno della mia ricerca artistica è quello di antropopoiesi, ovvero il processo di costruzione dell’identità umana, intesa come prodotto sia naturale che culturale. L’idea è quella di un corpo costruito, frutto di una stratificazione sotto diversi punti di vista, a partire dal concetto di rapporto interspecie, al rapporto con la tecnologia, intesa come come estensione del corpo stesso. Attraverso le mie opere offro una visione su qualcosa che già accade, reinterpretando le possibilità con cui i corpi e le identità vanno definendosi, il modo in cui si muovono e in cui si ambientano in un luogo.
Immagino che questa visione secondo la quale gli elementi sono strettamente interconnessi sia in parte frutto del tuo percorso di studi.
Senza dubbio. Proprio come sostiene l’antropologia culturale, tutto ciò che ci circonda è frutto del nostro bagaglio e conseguentemente l’uomo è da considerarsi un prodotto naturale e allo stesso tempo culturale.
In che modo hai espresso questi concetti con l’opera che hai presentato in occasione della tua partecipazione alla 59esima edizione della Biennale di Venezia?
Il titolo è “Dependency” ed è un lavoro molto stratificato. L’opera ha origine da un’idea performativa che vede corpi umani intrecciati ad elementi scultorei, come i serpenti in ceramica e le pettorine.
È un vero e proprio gruppo scultoreo?
Sì, in parte. È una sorta di performance di natura corale ed installativa. Sono particolarmente interessata all’aspetto di interdipendenza che sussiste tra elementi umani, naturali, organici, ed elementi artificiali. Una totale interconnessione, da cui non ci possiamo liberare. La mia installazione sottolinea la natura non armonica né organica di questa relazione, bensì scaturita dalla stratificazione e sovrapposizione di elementi sviluppatisi in momenti diversi, ma in ogni caso interdipendenti.
A questo proposito, Cecilia Alemani, curatrice de “Il Latte dei Sogni”, la mostra di Biennale Arte 2022, durante i mesi che hanno preceduto la data di apertura dell’evento, ha spesso citato le tesi della filosofa Rosi Braidotti, la quale, attraverso la ricerca postumana ed il concetto di ibridazione tra elementi naturali e tecnologici, suggerisce una delle strade percorribili per un futuro migliore. Noto diverse affinità tra i tuoi lavori e la sua ricerca, sei d’accordo? O, al contrario, ritieni che i tuoi lavori restituiscano una visione pessimistica e distopica del futuro?
Sì, direi che mi trovo piuttosto in sintonia con il pensiero transfemminista di filosofe come Donna Haraway o, appunto, Rosi Braidotti. Ciò che suggeriscono è un utilizzo consapevole della tecnologia, oggi trasformata in un supporto facilmente reperibile da chiunque: tendenzialmente in passato lo sviluppo tecnologico è stato strettamente legato alle necessità di innovazione del mondo militare. Braidotti cerca di trasformare questa prospettiva, supportando l’idea di una società fondata sul concetto di ibridazione, ovvero ciò che la società fallocentrica cerca di evitare, ad ogni costo.
Però?
Non sono totalmente d’accordo, perché mi pare di intravedere una sorta di atteggiamento accettante nei confronti del mezzo tecnologico. Così è stato durante tutti gli anni Novanta del secolo scorso. Noi che siamo cresciuti di pari passo con la tecnologia, abbiamo un rapporto differente.
È interessante sottolineare questo concetto, perché effettivamente sono temi nati ormai una trentina di anni fa.
La volontà di accettare la tecnologia con spirito attivo e non passivo ha spinto e accelerato questo processo per tutto il corso degli anni Novanta. Le generazioni più giovani sono nate e cresciute al fianco della tecnologia, sanno come dominarla e di conseguenza hanno un rapporto differente rispetto alle generazioni precedenti, hanno una visione più organica. Lo strumento tecnologico durante l’ultimo decennio del secolo scorso era strettamente legato al concetto di controllo, a strumenti come sonde o telecamere, ad esempio. Donna Haraway, in risposta ad un atteggiamento simile, propone un sistema lontano da quello maschilista patriarcale, fondato su quelle scomode dicotomie che hanno causato ineguaglianze e sofferenze per secoli. È una visione completamente diversa della tecnologia, sono d’accordo. Ancora, nel corso degli anni Novanta si è spesso fatto riferimento ad un’estetica strettamente legata al mondo delle pellicole sci-fi; oggi, al contrario, per considerarci dei veri e propri cyborg, basta avere uno smartphone in tasca.
Per quanto riguarda il progetto che hai presentato in occasione di Second Best Scenario, mostra svoltasi presso gli spazi espositivi della galleria Francesca Minini, qual’è stata la tua principale fonte di ispirazione?
Ciascun artista presente in mostra – sono stati invitati a partecipare infatti anche Benni Bosetto, Ivana Basic e Fin Simonetti – ha realizzato il proprio lavoro sviluppando la propria idea attorno al romanzo di Antoine Volodine, “Radiant Terminus”. Il concetto di una riflessione che trova le proprie radici nel mondo della letteratura mi affascina particolarmente: il libro narra una condizione post-apocalittica e post-nucleare, probabilmente ambientata in territorio russo, in cui quasi tutta la popolazione ha perso la vita a causa delle radiazioni nucleari, fatta eccezione per alcuni individui che, avendo sviluppato delle capacità psicofisiche particolari, riescono a sopravvivere. Alcuni di questi hanno ora la capacità di volare, ad esempio, o camminare all’interno dei sogni altrui, come una sorta di vero e proprio retrofuturismo onirico. Ammetto che mi sono trovata particolarmente a mio agio nella realizzazione di questi lavori, sono particolarmente attratta dall’estetica post-apocalittica.
Lo possiamo osservare riflettendo sull’estetica delle tue opere.
Ho tentato di immaginare corpi e figure che mutano e trovano un nuovo sviluppo a causa del disastro nucleare. Ho realizzato, ad esempio, il busto di un corpo, all’interno del quale possiamo notare come le cavità ospitino i favi delle api. Mi sono soffermata sulle modalità in cui gli individui si adatterebbero ipoteticamente a condizioni di vita così estreme, tornando in qualche modo ad una condizione di società primordiale.
Ascoltando le tue parole, mi pare di aver capito che tu sia particolarmente legata al mondo animale e che in qualche modo questo ricopra un ruolo fondamentale per la tua prassi artistica.
Sì, sono cresciuta a contatto con gli animali, fin da quando ero piccola, sono abituata a vederli vivere in libertà. Di conseguenza, fin da bambina, sono venuta a contatto con il tema della morte. Il ricordo di ossa, scheletri ed insetti mi permette di percepire da sempre una sorta di energia animale estremamente connessa alla nostra dimensione umana, se così possiamo definirla. Molti degli elementi presenti nelle mie opere sono corna, teschi animali, serpenti.
Torna perciò il concetto secondo cui tutto è strettamente interconnesso, quasi simbolicamente…
Le forme, trasformandosi vicendevolmente, danno vita a qualcosa di completamente nuovo. Una sorta di materia atomica in continuo sviluppo. Quando gli organismi muoiono, ritornano alla terra diventando polvere. È un ciclo ed è questo il motivo per cui introduco l’aspetto tecnologico: ogni elemento di cui abbiamo parlato fino ad ora è presente sulla Terra, sia esso naturale che artificiale, perciò il loro incontro è semplicemente inevitabile.
Sono concetti vicini al mondo spirituale e religioso. Siamo connessi non solo biologicamente, ma anche spiritualmente.
Credo che la biologia e la spiritualità condividano diversi punti di contatto. Il minimo comune multiplo della scienza sono gli atomi. Siamo tutti costituiti di particelle invisibili che si aggregano in modo diverso e prendono una forma diversa. Non vedo un rapporto dicotomico tra scienza e spiritualità. Il buddismo, ad esempio, divulga ciò che la fisica quantistica sostiene, attraverso termini e linguaggi differenti.
Durante il corso degli anni ti sei servita di diversi medium espressivi; secondo quali aspetti compi una scelta e perché?
In realtà è un processo piuttosto semplice. Sento che alcuni temi possano essere espressi al meglio con determinati medium, dipende da cosa mi immagino possa accadere. Ad esempio, se devo raccontare una storia o un’immagine che posso ricreare fisicamente, utilizzo il video e il mezzo fotografico. In particolar modo la fotografia.
Se compiamo un passo indietro, in occasione della tua personale alla Galerie Rolando Anselmi e della partecipazione alla mostra collettiva “Oh I Love Barbie, But I Think She Has Gotten Really Bad… She’s So Suburban Now” ospitata alla New Galerie di Parigi, hai presentato opere che riflettono su temi legati al mondo della mitologia, in particolar modo a “Le metamorfosi” di Ovidio. Che rapporto sussiste tra i tuoi lavori e la tradizione classica?
La Classicità è uno dei pilastri fondanti della cultura europea, filosofica in particolare, su cui si basano le sue idee sociali e politiche. Costituisce un retaggio, da cui difficilmente la popolazione europea può allontanarsi. Dal momento in cui costituisce un linguaggio visivo con cui l’umanità ha comunicato attraverso i secoli, mi interessano l’iconografia ed il concetto di immaginario collettivo. L’antropologo Claude Levi Strauss sosteneva come attraverso l’analisi dei miti e delle fiabe popolari si potessero comprendere le culture stesse.
Durante il Medioevo la maggior parte dei messaggi venivano veicolati attraverso le immagini.
Esattamente. Prossimamente presenterò a Parigi diversi lavori che riflettono sul concetto di linguaggio visivo, concentrandomi sul mondo del tatuaggio, sulla tradizione della scrittura sui corpi. Che cos’è la mitologia se non divulgazione di idee attraverso storie ed immagini?