C’è una verità che Matteo Santorum non teme più di guardare in faccia: la propria. Un ragazzo che oggi sceglie, scena dopo scena, di raccontarsi con delicatezza e determinazione, senza rincorrere maschere o sovrastrutture. Un attore che – oltre a interpretare i ruoli – decide di attraversarli, di abitarli. In un’epoca che esalta l’invulnerabile, lui rivendica la fragilità come forma di coraggio. Ed è proprio in quella vulnerabilità scelta, che affiora la parte più potente di sé.
Chi è oggi Matteo Santorum, al di là dei ruoli, delle luci e dei set? Come ti racconteresti a chi ancora non ti conosce?
Oggi Matteo nonostante sia cresciuto con più pugni che abbracci, sta imparando – finalmente – ad amarsi completamente, partendo dal semplice fatto di essere sé stesso, senza cercare altro. Sta imparando a conoscere la propria verità, per poi raccontarla con la delicatezza che gli appartiene. È determinato. Testardo. Curioso. Forse anche troppo. Ma, considerando il lavoro che ha scelto, direi che non basta mai.
A 14 anni hai lasciato casa per Londra, per studiare recitazione. Cosa c’era in quella scelta: più coraggio, più incoscienza o più fame di libertà?
Sentivo forte l’esigenza di un ambiente capace di accogliermi davvero per ciò che ero e non era semplice. Cercavo un luogo che mi desse quella libertà capace di farmi risuonare, maturare, trovarmi. Come uomo. Come artista. Londra è stata, in fondo, un atto di coraggio: la scelta di un adolescente che, forse senza rendersene pienamente conto, a 14 anni stava già andando incontro alla propria verità.
Dopo Londra sei tornato in Italia. In che modo quell’esperienza ha cambiato il tuo modo di vedere la recitazione e di viverla qui?
Londra mi ha insegnato a mantenere alta l’asticella, a darmi obiettivi a lungo termine, ma allo stesso tempo mi ha fatto comprendere l’importanza del “viaggio” prima ancora della meta. Perché, nel mio umile parere, un artista è qualcuno che ha il coraggio di essere umano. Londra ha rafforzato il mio perché. Senza un perché, senza un motivo autentico per cui facciamo ciò che facciamo, l’arte rischia di diventare solo un esercizio di stile. E così perdiamo forza, diventiamo deboli. In grandi linee, queste sono le pietre preziose che ho raccolto laggiù e che porto ancora oggi con estrema cura nella mia tasca destra.
Quando hai capito che la recitazione sarebbe stata davvero la tua strada, non un sogno, ma una vero e proprio lavoro?
L’ho detto proprio di recente alla mia terapeuta: a un certo punto mi è semplicemente balenato davanti come un fatto, senza più la possibilità di analizzare o prendere in considerazione altre strade. La verità è che in questo lavoro trovo il mio senso di stare al mondo. Non è una scelta che si può davvero spiegare o capire fino in fondo, è una verità che ho accettato, perché risuonava forte dentro di me. Una direzione impostata dal mio “piccolo me”, per l’uomo che voleva — e che voglio — diventare.
Libera, L’appartamento Sold Out e dal 4 al 7 Dicembre a teatro a Roma con A casa con Claude 2.0 : tre mondi diversi, tre linguaggi diversi. Cosa ti hanno lasciato questi ruoli e che tipo di attore ti stanno aiutando a diventare?
Ogni personaggio mi aiuta ad avere nuove inaspettate prospettive sulla vita. I personaggi che mi sono stati affidati raccontano molto di me, perché sempre da lì parto, e allo stesso tempo mi aiutano a scoprire una dimensione più universale.
Nei tuoi ruoli c’è sempre una dimensione di vulnerabilità, di umanità. È una cifra che cerchi o che ti viene naturale?
È una battaglia che combatto! Vorrei che gli eroi di oggi fossero sempre più uomini capaci di avere il coraggio di cadere, di coltivare l’empatia, la sensibilità. E credo che ce ne sia davvero l’urgenza, soprattutto in un periodo come questo, che sembra volerci allontanare dal nostro sentire, rendendoci sempre più simili a macchine. Voglio che i miei personaggi abbiano il coraggio di essere umani. Forse è qualcosa che mi viene naturale, perché ciò che cerco di comunicare artisticamente è esattamente ciò che provo a essere, prima di tutto, come persona. In un mondo in cui la narrativa verte verso il più forte è bello raccontare chi è anche più fragile. Non c’è bisogno solo di edere robuste ma anche di orchidee.
Hai iniziato presto e con una formazione internazionale. Come immagini il futuro del cinema e della televisione italiana per i giovani attori come te?
Sicuramente, per l’industria cinematografica, non è un momento propriamente felice, questo va detto. Però ciò che mi sorprende, soprattutto nei giovani, è che è tornata la voglia di andare al cinema. È qualcosa che sto osservando da un po’, e anche se non so se ci siano dati concreti a confermarlo, ultimamente trovo le sale sempre più piene. E questo mi riempie il cuore. Tutto questo per dire che spesso, dai momenti di forte crisi, sono nate le opere più memorabili. Penso, per esempio, a Roma città aperta. Quindi spero che questo periodo diventi un’opportunità di coesione, di unione, di stimolo artistico. Un’occasione per rimescolare le carte in tavola e ripartire con una nuova energia creativa. Uno dei registi che più amo, Luca Guadagnino, ha ricordato non molto tempo fa quanto sia importante staccarci da un’arte che conforta e basta, per tornare a un cinema che sappia essere anche scomodo, persino straziante. Forse è proprio questo il momento, per noi, di recuperare quel tipo di narrativa.
Ti piacerebbe tornare a lavorare all’estero o oggi senti il bisogno di costruire qualcosa qui, in Italia?
Oggi, sento il bisogno di mettere radici ancora più forti qui, nella mia terra, che è comunque ricca di risorse, alcune ancora in attesa di essere scoperte da sguardi curiosi. Allo stesso tempo, vado spesso all’estero per formarmi e trovare nuovi stimoli… Chissà, magari un giorno perderò l’aereo di ritorno. E anche se dovesse succede ho sempre il passaporto italiano!
Se dovessi descrivere il tuo stile, non solo nel vestirti, ma nel modo di stare nel mondo, quale parola useresti?
Energico. Focoso. Curioso
Cosa ti tiene con i piedi per terra tra un set e l’altro?
Ci sono i miei affetti e la spiritualità, che nella mia vita hanno un ruolo molto centrale e mi danno un senso di raccoglimento.
Guardandoti oggi, a 24 anni, cosa diresti al ragazzo che partiva da Riva del Garda con una valigia per Londra?
Gli manderei una lettera con questa poesia e gli chiederei di conservala in un cofanetto e di raccontarla allo stesso ragazzo che oggi ha 24 anni… “Che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti – finalmente e con che gioia –toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre, anche profumi; va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti. Sempre devi avere in mente Itaca – raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti?”
Se la tua vita fosse un copione ancora da scrivere, quale scena ti piacerebbe vivere prossimamente?
Esterno. Giorno. Su una collina della Toscana, vediamo il nostro protagonista camminare lungo il crinale. Dall’altra estremità, in un totale, compare la figura di un bambino che avanza verso lo stesso punto: una grande quercia, solitaria, al centro del paesaggio. Con l’avvicinarsi della macchina da presa, scopriamo che quel bambino è in realtà lo stesso protagonista. I due sono destinati a rincontrarsi dopo tanto tempo: si scorgono da lontano, poi, con un passo che si fa sempre più deciso, si vanno incontro, accompagnati dal crescendo della musica e dal sorgere del sole. Per raccordarsi, senza soffermarsi su ciò che è stato, ma su ciò che dovrà essere. Non stanno sognando: stanno semplicemente mantenendo una promessa fatta alla nascita. Si era promesso.
Words: Lorenzo Salmone @salmonelorenzo
Talent: Matteo Santorum @matteosantorum
Photographer, Pr & Image: Davide Musto @davide_musto
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