Il sole riscalda la pavimentazione cinerina antistante la stazione ferroviaria di Padova. È una mattinata di fine estate, il clima è mite. Arrivo con più di un’ora di ritardo perché la metropolitana milanese, su cui sono solito salire, questa mattina era chiusa, causa lavori di riparazione informano gli addetti alla sicurezza. Francesco Ardini mi sta aspettando seduto in macchina, puntualissimo, a differenza mia. Salgo e iniziamo il viaggio, direzione Nove (VI). Passano circa una quarantina di minuti, immersi nella pianura veneta, verde terra di lavoratori instancabili. Mi racconta della sua recente esperienza berlinese, della scena techno. Condividiamo storie di rave, club, ci troviamo sulla stessa lunghezza d’onda. Sonora, in questo caso.
Prima di raggiungere il suo studio, attraversiamo il piccolo borgo, un fitto complesso di archeologia industriale a cielo aperto, un luogo che trasuda tutt’ora la complessa attività ceramica che l’ha reso celebre. Nove, mi racconta, sorge sulle sponde del fiume Brenta, nella pianura di Bassano e deve proprio alla sua posizione strategica le fortune economiche passate. Depositi di materiali alluvionali, ghiaie e sabbie venivano utilizzati per gli impasti ceramici, l’energia idraulica del fiume serviva da forza azionatrice dei complessi macchinari dei mulini, fondamentali per la preparazione delle terre. La storia ceramica del paese è testimoniata dalla presenza del Museo Civico della Ceramica e del Museo Diffuso, una serie di opere ramificate tra le manifatture, le vie e le rogge – antichi canali artificiali d’irrigazione – di Nove. Al termine di una via a senso unico parcheggiamo di fronte a un ex complesso industriale, un ampio edifico a due piani. Varcata la soglia del secondo, mi ritrovo immerso nell’universo formale di Ardini.
Un’ampia volta a botte in mattoni raccoglie lo spazio, vissuto, illuminato dalle estese file di vetrate satinate che compongono il perimetro dell’ambiente. Le opere si susseguono, dialogano, si sovrappongono e allo stesso tempo rispecchiano un preciso ordine mentale che l’artista riconosce, vive, con cui si confronta. Lavora la ceramica spesso a terra. La modella, sottrae e compone. Diverse forme abitano lo spazio, gesti e memorie stratificate, impronte, vuoti e polveri. Queste in particolar modo ricoprono un ruolo centrale nella ricerca di Ardini, testimoni del flusso ininterrotto del tempo, una pratica sottrattiva che rivendica il primordiale potere generativo di una traccia lasciata consapevolmente.
Un atto creativo sviluppato nel tempo, attento alla comprensione del territorio e alla definizione di pratiche di recupero. Mentre riflettiamo sulla selezione di opere presenti nel più recente progetto presentato negli spazi espositivi di Limbo Contemporary a Milano, Ardini introduce la serie delle Vedute (2025) stampe fotoceramiche – una particolare tecnica presentata in questo caso su supporto bidimensionale – rielaborazioni algoritmiche digitali di scatti catturati dall’artista stesso immerso nell’ambiente circostante. In concomitanza vivono le Diatomee, corpi refrattari, amorfi, estrusioni indipendenti che paiono ergersi dalle immagini ottenute. Ibride per definizione, abitano una condizione interstiziale, sospesa tra passato e futuro, tra memoria e speculazione.
Così Ardini riflette sul potere intrinseco e morfologico della materia, attraverso un rapporto sia fisico che spirituale. Uno studio alchemico degli elementi e delle loro rispettive proprietà, intrecciando sapientemente una profonda conoscenza artigianale – secondo cui tecniche di epoche diverse riaffiorano come testimonianze di un sapere sepolto da tempo – ad una tensione sperimentale, una spinta verso gli estremi che opera per tentativi, accettando il fallimento come passaggio obbligato per una nuova comprensione. Uno sguardo proteso verso l’innovazione, filtrato dalla riscoperta del passato, così come gli occhi di Mercurio (2025) mi guardano, attraverso le lenti colorate che lui stesso sorregge.
Words: Edoardo Durante @edo_durante
Digital Director: Giulia Pacella @giupac79













