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Irama Breaks the Surface

Fake fur Aniye Records, pantaloni Sportmax, collana Emanuele Bicocchi. Courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro
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Fake fur Aniye Records, pants Sportmax, collana Emanuele Bicocchi. Courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro

Dietro le case di ringhiera a Milano spesso si celano luoghi inaspettati. Come la Fondazione Arnaldo Pomodoro, in via Vigevano, un luogo in cui la forma e la materia prendono respiro. Nelle superfici levigate delle sfere, dei parallelepipedi e dei solidi che abitano lo spazio – che è stato laboratorio del grande artista scomparso a Giugno 2025 – il silenzio vibra come un preludio. Da vicino, però, quella perfezione si incrina: tagli, cavità e fenditure rivelano ingranaggi nascosti, un cuore meccanico e vulnerabile che pulsa sotto l’apparenza compatta della materia. Pomodoro lo ripeteva spesso: la verità sta nella frattura, nel punto in cui la forma perfetta si apre e lascia vedere ciò che custodisce. È proprio qui – tra opere nate dal dialogo fra superficie e interiorità – ed è proprio per questo che scegliamo di raccontare e fotografare Irama, protagonista della nostra digital cover di Novembre 2025. Ed è sorprendente quanto questo scenario assomigli a lui e al suo ultimo album Antologia della vita e della morte. Il disco, nato da un isolamento voluto dal musicista per chiudersi al rumore e ascoltare ciò che resta, è un viaggio interiore che attraversa memorie, trasformazioni e lo scorrere del tempo. La casa diventa il centro simbolico di questa esplorazione, luogo reale e insieme immaginario, rifugio intimo e palcoscenico di presenze sospese, custode di affetti, incrinature, ritorni. I 14 brani si aprono come stanze vissute, ognuna abitata da un frammento diverso di esistenza, dove si intrecciano forza e vulnerabilità, desiderio e mancanza, luce e oscurità. La risonanza con la poetica di Pomodoro è immediata. Al pari delle opere dell’artista – forme essenziali dalle superfici lucide che si spaccano per rivelare intricate architetture e interiori – anche Irama vive una dialettica fatta di contrasti: è la sua stessa altalena emotiva a creare lo squarcio, a incrinare la superficie. “Quella instabilità è la benzina che mi fa scrivere” confessa. Ciò che sembra integro nasconde un movimento interno, un’energia disordinata che cerca un passaggio. Nei suoi brani, come nelle rotture di Pomodoro, la crepa diventa una rivelazione: è da lì che entra la luce, è da lì che nasce la sua musica. Nella tensione tra essenzialità e caos, tra volontà di controllo e perdita dello stesso, Irama tratteggia le sue geografie interiori e fonda la forza dell’album proprio nella lacerazione che rompe l’illusione della perfezione e permette alle complessità interne di emergere e fluire. Mentre lo fotografiamo davanti a Le Battaglie – opera monumentale del 1995 che campeggia all’interno della Fondazione e il cui alfabeto visivo racconta di un’energia conflittuale e di un ordine che si disgrega – la connessione diventa ancor più evidente. In questo spazio Filippo sembra trovare un linguaggio che gli appartiene: quello in cui l’interiorità non è un luogo da nascondere, ma un territorio da esplorare. E da rivelare. Ed è da qui che parte il suo album e la nostra intervista: dall’interiorità.

Come stai? Che momento è questo per te?

Bene. È uscito il mio disco, ho finito i concerti e c’è San Siro nel 2026. È un momento di grande lavoro, però è come se stessi tornando un po’ nell’ombra, paradossalmente. In generale sono sempre su un’altalena emotiva, che però è anche la benzina che mi fa scrivere.

Il titolo del tuo nuovo album, Antologia della vita e della morte, sembra un ossimoro, una tensione tra due estremi che convivono. Da dove nasce questa dualità? Sei uno che vive di contrasti o è solo una fase?

Una fase no, non lo è mai stata. Probabilmente cambierà, ma è difficile da spiegare. Non penso nemmeno sia questione di immaturità o di maturità: sono ancora un po’ nel mezzo. Penso invece che questa altalena di emozioni sia dettata dalla vita che faccio, che è un po’ anormale, visto che ho iniziato a stare nel mondo della musica molto presto. Cerco di vivere la normalità e le piccole cose, ma ho sempre avuto difficoltà a emozionarmi e a sentire tutto in maniera forte.

Ti sei un po’ anestetizzato?

No, non è quello. È che a volte ho una visione della quotidianità diversa e questo mi porta a non intrecciarmi con le emozioni più semplici, che sono invece quelle più importanti. Sono le uniche che contano: il resto sono orpelli. Ma stando in questo mondo fin da bambino, spesso è difficile distinguere il vero dal falso.

Hai trovato un tuo modo per rapportarti a queste emozioni o sei ancora in una fase di ricerca?

Cerco sempre di più di trovare lo spazio per piccoli piaceri quotidiani. Vorrei costruirmi delle realtà che un domani mi permettano di vivere pienamente quei momenti. Non è facile: bisogna lavorarci una vita. Spero solo di non annoiarmi, perché conoscendomi sono uno che si rompe le scatole con facilità. Il rischio è quello: in generale se ti abitui troppo a qualcosa, quando smetti ti deprimi. È come chi lavora tutta la vita da mattina a sera e poi, smettendo di colpo, crolla. Non è una questione di fuga: anche l’altalena diventa routine, e poi monotonia.

Hai dei rituali che ti tengono ancorato alla realtà?

Continuo a vedere i miei amici d’infanzia, quelli con cui sono cresciuto: con loro vivo una quotidianità “normale”, lontana dai riflettori. Qualche settimana fa siamo andati insieme a trovare dei bambini in ospedale: lo facciamo ogni anno. Sono cose normalissime, ma per me sono fondamentali. Mi mettono di fronte alla realtà: di fronte hai bambini che non stanno bene e che sono coraggiosissimi. Sembrerà banale quello che sto dicendo, ma quando esci di lì ti rendi conto che avevi pensieri per cose che non valgono nulla, capisci che il resto sono tutte cazzate.

Ripercorrendo la tua evoluzione artistica, dal giovanissimo Irama di allora fino a oggi: quali ferite e quali rinascite ti hanno segnato?

Ce ne sono tante. Chi ascolta la mia musica, lo sa. Ho avuto tante porte sbattute in faccia, tanti momenti di sconforto, che però mi sono serviti come benzina da mettere nel serbatoio. Non sono uno che si piange addosso. Credo invece nella resilienza. Fa parte della storia dell’uomo rimboccarsi le maniche! Ma vedo che oggi manca sempre più il coraggio, il senso del dovere e della fatica. Stiamo premiando la facilità e quindi la banalità. Arriveremo al punto in cui i nostri figli non avranno più ambizione, perché anche l’ambizione sarà vista come qualcosa di negativo. E questo per me è folle.

Questo album è stato catartico: hai avuto il coraggio del silenzio per fare spazio al senso, anche attraverso il vuoto. Cosa hai scoperto di te lavorandoci?

Continuo a scoprire. Ogni volta che mi riavvicino alla musica mi sembra di non saper più scrivere. È in continua evoluzione ed è incontrollabile. Spesso si dice che la canzone “arriva”, ed è vero: gli artisti sono un mezzo per qualcosa di più alto. Storicamente la musica veniva usata per parlare con le divinità, oggi non è più così, ma secondo me c’è ancora dentro un senso alto, qualcosa di mistico, letterario. È quello che non riesci a controllare ed è la parte più difficile.

La mancanza di controllo genera paura?

Genera insicurezza, soprattutto in chi è abituato a controllare. Dipende dal tipo di persona che sei. Un individuo che non ha controllo e rimane tranquillo può essere il più grande saggio del mondo. O il più stupido.

Molti dei tuoi testi parlano di fragilità e di paura, ma anche di forza, moltissime persone trovano sostegno nelle tue canzoni. Che potere ha la tua musica?

La mia musica ha tanti scopi: a volte è solo per me, a volte è per raccontare una storia o comunicare delle emozioni. Quando una canzone riesce a tirar fuori quello che anche altri hanno dentro, quando le persone si identificano in ciò che racconti, hai vinto. La cosa più complessa da fare è trasformare qualcosa di difficile in semplice e rendere ciò che è alto accessibile. George Brassens che ti parla del gorilla (ndr: la canzone Le gorille, 1947) con una storiella ironica è uno che ti spiega la società meglio di qualsiasi intellettuale che per ostentare cultura aggiunge mille orpelli inutili.

Anche la tua Antologia della vita e della morte è personale e universale allo stesso tempo, esperienze soggettive che trovano però una riconoscibilità e diventano storie collettive.

Sono molto contento che l’album piaccia (ndr: mentre realizziamo lo shooting il 24 ottobre, sul set si festeggia anche la prima posizione in classifica del disco). Al di là dei numeri ho ricevuto tanti messaggi. Era la direzione giusta per me, l’unica possibile. Non ho rimpianti.

Che rapporto hai con l’immagine? Come fai a non farla prevalere sulla sostanza?

Ho avuto momenti in cui l’ho seguita molto, cercando di fare cose più ricercate, e momenti in cui l’ho messa da parte dicendomi che bisognava fare cose più dirette e più semplici possibili. Anche su questo aspetto c’è sempre stata un’altalena. Da bambino ho dovuto costruire il mio linguaggio: quando fai hit da piccolo le persone ti identificano con quelle. Allora poi devi trovare il modo per rendere famose altri tipi di canzone, per far capire la tua sostanza. Penso a Nera, che è leggerissima, e dopo La ragazza con il cuore di latta, che è sostanza. Ho costruito un dualismo: leggerezza e profondità. Questo mi rispecchia. Anche se in questo disco la leggerezza si dirada: crescendo diventi più “pesantone”.

A proposito di leggerezza: quanto ti diverte la moda oggi?

Mi è sempre piaciuta, fin da bambino. Mia mamma e mia zia mi portavano in giro con loro per negozi e io mi nascondevo dentro i cappotti. Mi piacevano, volevo sempre comprarli tutti. Poi ho conosciuto Kean Etro che per me ha realizzato dei custom look: è stato un po’ un sogno che si realizzava perché da un lato rappresentava il mio lavoro che stava crescendo, dall’altro i ricordi divertenti della mia infanzia. Con il tempo sono entrato e uscito dal mondo della moda, anche qui a fasi altalenanti. A volte mi sono visto come un manichino, con abiti che non rappresentavano né me né la mia musica, e lì tornavo indietro. È una cosa difficile. Sto ancora imparando.

Questo album è uno scrigno prezioso anche per i duetti e i feature racchiusi. Come sono nati e cosa cerchi di solito in un incontro artistico?

Sono stati tutti incontri molto organici, dettati dalla musica e non da ciò che ci sta intorno. Con Achille Lauro ci troviamo bene anche a livello personale: stima e amicizia. Con Elodie lo stesso ed è stato bello incontrarci in un brano che abbraccia i nostri due mondi. E con Giorgia, che dire?! Ha una voce stupenda. Quando le ho sentito cantare il ritornello la prima volta per me è stata un’emozione incredibile.

Siamo all’interno della Fondazione Arnaldo Pomodoro, un artista che ha lavorato sulla materia, spaccandola per rivelarne la luce interiore. In qualche modo anche le tue canzoni, come sculture sonore, lasciano intravedere una  crepa. C’è sempre una rottura?

Sì, spesso il mio processo creativo nasce da uno squarcio, si distrugge qualcosa. Il lavoro vero avviene prima di scrivere: devi imbottigliare un momento, un’emozione che può essere rabbia o felicità, ma che è comunque qualcosa di dirompente. La felicità per me è il sentimento più difficile: dura poco, mi sfugge sempre. Nel disco invece riesco a darle una forma, diventa qualcosa di tangibile, c’è una parvenza di controllo. Nella vita invece non riesco mai a catturarla fino in fondo. Però va bene così, se hai il controllo totale delle tue emozioni diventi un’intelligenza artificiale.

In Antologia della vita e della morte sembri voler affrontare anche il tema del tempo quello che passa, quello che resta. Cosa ti spaventa di più: l’oblio o il futuro?

Non so cosa rispondere.

A proposito di futuro però, ce n’è uno prossimo molto adrenalinico con San Siro alle porte. Come ti senti?

Sì, c’è San Siro, bisogna mettere la testa lì, voglio che sia un bel momento, che sia indimenticabile, ma non voglio nemmeno caricarlo troppo. Spero che le persone se lo godano insieme a me, che sia un’esperienza.

Che posto occupa l’amore per te?

C’è sempre. Vivo d’amore e scrivo anche per quello. È una delle cose più semplici, però anche più complesse. Ed è importantissimo, perché se non hai quello a un certo punto arriverà un momento nella vita in cui ti accorgi di non avere niente. Tuttavia non dev’essere nemmeno un’ossessione e una ricerca ostinata, ma qualcosa di naturale.

E qual è l’amore più grande della tua vita oggi?

Per me è molto legato alla perdita, purtroppo. È un tema che torna spesso anche nelle mie canzoni. Ognuno ha le sue ferite e i suoi traumi. Per me la perdita è centrale.

Come immagini la tua prossima tappa artistica? Hai un sogno che stai inseguendo?

Sì. È difficile parlarne senza spoilerare. Sto inseguendo due progetti in due mondi diversi. Quando inizierò a realizzarli verrò volentieri a raccontarveli.

Ogni artista, a un certo punto, sente il bisogno di distruggere una parte di sé per rinascere. Qual è la parte di Irama che hai lasciato andare per arrivare fin qui?

Non ho mai fatto compromessi. Non è una scelta sempre intelligente, ma ammiro le persone coerenti, anche negli errori. Però quando fai questo lavoro non sei da solo: ci sono persone con cui lavori che hanno delle visioni su di te e questo crea equilibri molto delicati, perché magari non sempre ti ci riconosci. E lì diventa poi difficile. Mi rimprovero di non essermi ascoltato abbastanza in alcune occasioni. Ho fatto tante esperienze sulla mia pelle che mi sono servite, ma a volte forse avrei dovuto ascoltarmi di più, pur sbagliando, perché secondo me è il modo migliore per non avere rimpianti.

Qual è invece il tuo punto fermo da sempre?

Sapere che non sono nessuno e che devo rimboccarmi le maniche. Questo mi aiuta tantissimo: non ho paura della fatica. Questo mondo ti illude e a volte ho delle botte di ego, ma mi durano minuti.

Come la felicità?

Esatto.

Photographer: Andrea Bianchera @andrea_bianchera at @nobileagency
Stylist: Simone Folli @simonefollistylist
Grooming: Stefano Conte and Rosy @stefanoconteparrucchiere
Digital: Leonardo Galeotti @lgaleotti_
First ass: Federico Lombardi @federico.lomba
Second ass: Camilla Dalla Costa  @camdalla.photos
Stylist ass: Nadia Mistri @mistrinadia
Retoucher: Manola Casciano @manola_casciano
Producer: Lorenzo Salmone @salmonelorenzo

Editor in chief: Andrea Bettoni @_andreabettoni
Digital Director and words: Giulia Pacella @giupac79
Digital Content Director and Creative Director: Nicola Pantano @nicolapantano_

Talent: Irama @irama.plume
Management: Shablo, Urubamba studio @shablo @urubambastudio
Press: Elena Tosi and Roberta Rifezzo @leletosi @rob__ri
Per la location si ringrazia @fondazione_arnaldo_pomodoro