Lo chiamano Settembre il primo mese dell’anno secondo un calendario che non conosce estate, quando vi è il risveglio di una coscienza culturale e di un corpo meccanico che impara di nuovo ad annodare la cravatta. Ma quest’anno il nodo è più stretto e la coscienza sembra tardare a risvegliarsi, assopita da un capitalismo che non è mai volato verso una spiaggia ai tropici.
Di tropicale ci sono solo le temperature, di una stagione che si preannuncia asfissiante, in vista del taglio del nastro della SS26, che dopo un calendario fitto di show a NewYork ed uno più esiguo di Londra, giunge a Milano, dove i rumors non mancano. Quelli di insiders e pseudo tali che, come ogni anno, tentano di prevedere quello che sarà, anche se quest’anno l’azzardo non ha fondamenta logiche. In fondo si sa, il mercato è una scienza inesatta, volubile, dove spesso la somma corrisponde ad una differenza. A dirlo sono le stesse parole del fashion market, cioè i numeri che parlano di decrescita della produzione tessile nel lusso capitanata da Kering, che decide di diminuire il suo prodotto, ritornando ad un ritmo artigianale, anche se qualcuno vi intravede più una macchina produttiva che necessita di respirare che un ritorno alla manualità sacra del compartimento luxury.
Il debutto di Demna Gvasalia da Gucci per la SS26 è forse una delle dimostrazioni più lampanti: il tempo di chiudere le tende di Balenciaga con l’ultima Couture, che il brand italiano annuncia l’anticipo del debutto del designer georgiano alla direzione creativa, non più fissata per febbraio ma per settembre, con una nota di fondo che grida ‘’non c’è più tempo’’. Il tempo effettivamente sembra scarseggiare, e la mole di lavoro aumentare. Cosa aspettarsi? Un nuovo capitolo dove la critica al sistema che ha accompagnato Gvasalia per tutti questi anni possa convivere con una sartorialità che suona come rinascita. L’ormai già ex CEO di Gucci, Stefano Cantino, però aveva spiegato a MFFashion (a Gennaio 2025) che ‘’per poterci permettere di rallentare, dobbiamo lavorare il doppio, e rallentare non significa fare meglio ma concedersi un tempo supplementare’’.
A queste parole si erano poi aggiunte quelle del gruppo Prada che – da instancabile macchina da lavoro (e successi) – annuncia il no show di Versace, da poco acquisita. Sembra quasi un atto profano quello di togliere il brand dal calendario, ma secondo la nuova proprietà è un ‘’atto necessario, ben studiato’’. Che la famiglia Prada abbia sempre seguito un percorso diverso dagli altri è ben noto, ma questa decisione è una mossa che non parla solamente alla moda, ma all’uomo che spesso si confonde con una macchina, anche quando quell’uomo di nome Dario Vitale, reduce dai successi di Miu Miu, è capace di intessere, emozione e viralità da trend.
Un intreccio tra spontaneità e strategia che ha segnato anche il successo di Bottega Veneta, con le borse dell’era Blazy, servitesi del formato social per diffondere la manualità artigianale propria dell’identità artistica del brand, e che ora passa nelle mani della nuova direttrice creativa Louise Trotter, anche lei tra i nuovi debutti di Milano. Trotter sembra essere avvantaggiata rispetto ai suoi colleghi, perché – a differenza degli altri brand del gruppo di Pinault – Bottega Veneta naviga mari più quieti, dove l’ondata Blazy si mantiene stabile, anche se la domanda ora è la stessa che venne posta a DeSarno con Michele: riuscirà a fare di più? Ma soprattutto: riuscirà a fare lo stesso?
Sembra, quest’ultima, una domanda frequente nello scenario moda attuale, sopratutto se si guarda a Jil Sander che ha perso il suo duo, i Meier, i quali si erano aggiudicati un pubblico ben complesso da accontentare, quello del minimalismo dove spesso innovazione si confonde con appiattimento estetico. Un compito che ora grava sul neo direttore creativo Daniele Bellotti. Il suo suona più come un ritorno che un debutto, lui che era riuscito a cucirsi il titolo di direttore creativo con Bally, ora deve divenire più un architetto dell’abito che un comune progettista del tessuto. E a chi invece viene chiesto di essere la progettista di un universo onirico, a tratti infantile, riscrivendo quella favola che è stata Marni con Francesco Risso. È questa l’impresa di Meryll Rogge che diviene l’autrice di un capitolo tutto nuovo. Ma nulla di inconcepibile se si considera la sua abilità nel coniugare finanza e creazione, grazie alla sua esperienza alla guida di una società di consulenza creativa che lavora con i gruppi più grandi del fashion. Può essere questa la grande svolta? Nominare una direttrice creativa che conosca anche il linguaggio numerico, così da evitare discrepanze tra conti e abiti?
I tempi si accorciano e questo ballo sulle punte della moda sembra cominciare a soffrire di mancanza di slancio. Sembra di approdare sulla luna quando si leggono i comunicati, ma poi in presa diretta dell’evento ci si accorge che lo stupore da prima pagina di giornale non basta. Ma allora cosa manca? Non manca nulla, è solo la miscela a dover essere rivista. Il mercato si sta accorgendo ora che sommare non vuol dire raddoppiare, ma che dividere vuol dire dimezzare.
Words: Luca Cioffi @ilmilanesedi_roma
Illustrations: Irene Ghillani Opera Illustration – @ireneghillani_illustration @opera_illustration
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