Di Enrica Alessi

Nella moda tutto è il contrario di tutto, non ci sono regole. E fino a che si è trattato di stile, tutto bene, il problema è sorto quando il prodotto si è inflazionato a tal punto da perdere il suo valore. E dire che anche il wrap dress ci aveva dato una lezione negli anni ’70, dopo essere diventato detestabile a furia di vederlo in giro.
Nella moda non c’è spazio per la coerenza, al contrario, l’incoerenza diventa un accessorio indispensabile per rimanere al passo con i tempi – che cambiano a velocità supersonica. Moda e storia hanno sempre fatto coppia fissa per accontentare le esigenze vestimentarie in genere: la moda racconta un’epoca e ogni epoca ha la sua moda. Tuttavia oggi, dopo aver accumulato un bagaglio di esperienza importante, sarebbe bello fermarsi un momento, analizzare il passato e cambiare idea tenendo conto di ciò che ci ha insegnato.

Wrap Dress, Diane von Fürstenberg
Wrap Dress, Diane von Fürstenberg

L’alta moda ha visto il suo declino nei primi anni ’50, quando è stata rimpiazzata dal prêt-à-porter di lusso, ma è grazie alle rivoluzioni giovanili degli anni ’60 che il prêt-à-porter ha assunto il suo vero significato. Una concezione di moda democratica, non più creata su misura negli atelier per una clientela di élite, ma confezionata in serie per un pubblico allargato, più interessato alla novità che alla qualità. Una moda sinonimo di divertimento, di rivendicazione generazionale. Per citare Yves Saint Laurent: “Prima le figlie volevano somigliare alle madri, ora è il contrario”.
Le culture giovanili usano i vestiti per manifestare una scelta di appartenenza, e sostengono i propri ideali a suon di mini gonne, jeans a campana, camicie flower power. Una moda nuova con un tocco di vintage: dopo aver criticato il guardaroba dei genitori, i ragazzi si vestono con i blazer over di papà.


Il prêt-à-porter afferra il concetto e non si limita a progettare un abbigliamento da proporre in due collezioni annuali, ma crea un ‘contenuto moda’,  un gusto, un’atmosfera in cui il compratore possa riconoscersi e comprare capi nuovi con lo stesso stile. Il progetto funziona a lungo, e bene anche, a tal punto che qualcuno ruba l’idea, proponendola a modo suo. A metà degli anni ’70 nasce un nuovo fenomeno: il fast fashion, una tipologia di abbigliamento che si rinnova in modo rapido, più volte per stagione, più volte in un mese. Il suo iter consiste nel copiare le collezioni dei grandi marchi di prêt-à-porter e di offrire capi di scarsa qualità a un prezzo così basso da indurre i clienti a rinnovare il proprio guardaroba continuamente.
Nel frattempo il prêt-à-porter, che deve sostenere il grande business con cifre astronomiche, offre un prodotto finale con prezzi inaccessibili per molti mercati mondiali, Italia compresa. Il fast fashion, per quanto discutibile per innumerevoli ragioni – etica e ambiente in primis – di fatto rappresenta l’unica soluzione economica capace di accontentare ogni tipo di clientela. E mi chiedo: se il prêt-à-porter fosse stato più coerente, oggi esisterebbe il fast fashion? Difficile rispondere ma, senza dubbio, qualcosa è andato storto. Dopo la corsa sfrenata agli acquisti, incentivata dal boom economico, che ha riempito le case delle famiglie occidentali, la domanda precipita inevitabilmente. Si conclude l’epoca del mercato di riempimento e, senza alcuna regolamentazione, inizia quella del mercato di sostituzione, dove le strategie di produzione e vendita si orientano per indurre le stesse famiglie a sostituire i beni che hanno già, con altri più belli e più nuovi.

La concorrenza è spietata, le case produttrici ribassano i prezzi innescando una guerra commerciale feroce, senza tener conto dell’effetto boomerang che oggi rischia di mandare in tilt tutto il sistema. La fase successiva è quasi prevedibile: l’epoca del mercato di svuotamento, dove ci si libera degli oggetti in eccesso mettendoli in vendita. Ed ecco che il prêt-à-porter si trova di fronte ad avversari che non aveva considerato: il vintage, il second hand. I capi d’annata trasmettono il sapore di un periodo felice in cui c’era ancora il desiderio di sorprendere e il riciclo rimane la forma di shopping più ecosostenibile in assoluto.
Per quanto i grandi marchi si mostrini sensibili alla faccenda green, continuano a produrre più collezioni del necessario, imitando la politica del fast fashion che intasa il mercato. Il sistema di oggi ha ucciso il lato emozionale della moda e ha incentivato l’omologazione, a discapito della propria identità. Il colore dei soldi sembra non passare di moda, ma il contenuto è andato in saldo. Il modello voluto dalla nuova industrializzazione non capisce altre ideologie che quella del consumo. Tuttavia Roberto Capucci ha sempre tenuto a mente le parole di Schiller: “Se quello che fai o crei non piacerà alle folle, cerca di deliziare i pochi”.
Forse è tempo di uscire dalla comfort zone e scegliere da che parte stare. Se il prêt-à-porter vuole distinguersi dal fast fashion, deve invertire la rotta e diminuire il numero di collezioni. Ha il dovere di riscoprire l’eccellenza artigianale delle piccole produzioni che rischiano di scomparire e riportare in voga la magia per cui la moda è conosciuta. La moda è parte integrante della storia e merita di essere raccontata come si deve, oggi più che mai in modo inclusivo, attraverso eventi culturali che coinvolgano giovani e diversamente giovani a scoprire cosa si cela dietro ciò che, spesso, è visto solo come un logo. La moda ama parlare di innovazione, eppure, da più di cent’anni, gli ingredienti delle sfilate sono sempre gli stessi: passerella, modelle, fotografi, pubblico ristretto, e attesa di verdetto. Forse varrebbe la pena rischiare e battere altre piste, perché è nei momenti di maggiore avversità che nascono le idee migliori.

Una volta, infatti, è stata fatta un’eccezione e quella che poteva essere una presentazione qualunque è diventata una mostra itinerante.

Dopo la liberazione di Parigi, al figlio di Nina Ricci viene un’idea: un teatro di moda in miniatura. Alla fine della Seconda guerra mondiale, tutti i materiali scarseggiano e Robert Ricci propone di utilizzare delle bambole di moda per non sprecare materie prime. I manichini sono alti 70 centimetri e sono realizzati con filo metallico. Più di sessanta stilisti aderiscono e offrono materiali di scarto e manodopera per creare i modelli della mostra. Balenciaga, Balmain, Lanvin, Nina Ricci, Hermès, per citarne alcuni. Le modiste creano cappelli in miniatura, gli hair stylist acconciano i manichini e i gioiellieri Van Cleef and Arpels e Cartier li vestono con i loro preziosi. Alcune sarte realizzano persino indumenti intimi in miniatura da mettere sotto i modelli di alta moda. La meticolosa attenzione nei dettagli è sorprendente: i bottoni hanno vere asole, le cerniere si chiudono. Le borse contengono piccoli portafogli e hanno piccoli comparti al loro interno. Il Théâtre de la Mode diventa una mostra di 237 statuette, che viene inaugurata al Louvre il 28 marzo 1945. Attira oltre 100 mila visitatori e raccoglie un milione di franchi per i soccorsi di guerra. Con il successo della mostra a Parigi, il Théâtre de la Mode va in tournée con spettacoli a Londra, Leeds, Barcellona, Stoccolma, Copenaghen, Vienna, New York e San Francisco. La trasferta della mostra negli Stati Uniti contribuisce a consolidare l’influenza globale della moda francese e contribuisce allo scambio culturale del dopoguerra tra Europa e Stati Uniti.

Un bellissimo esempio che potrebbe essere riproposto il chiave moderna.
Come ho detto: la moda racconta un’epoca e ogni epoca ha la sua moda, e ogni moda ha la sua dose di incoerenza, ma mai deve perdere di vista il suo focus: sorprendere, anche rallentando i ritmi, quando diventa necessario.