In conversazione con l’artista ucraino Aljoscha, riflettendo sulle sue più recenti installazioni site specific presentate presso Tempesta Gallery e la chiesa di Santa Maria degli Angeli a Milano
In che modo si è sviluppato il progetto presentato presso lo spazio espositivo di Tempesta Gallery e in che modo dialoga con l’installazione presentata presso Santa Maria degli Angeli sempre a Milano?
Fin dall’inizio abbiamo avuto il forte desiderio di uscire dal white cube della galleria e di creare qualcosa di grande, ma mai visto prima a Milano, qualcosa di site specific che potesse accendere ulteriormente l’immaginazione degli spettatori. Le sale della galleria, molto pulite e semplici, mi hanno invogliato a creare un super-essere trasparente e fragile come metafora di una possibile pace con scintille di colore devianti. Certamente, all’interno di questa installazione, ho approfondito entrambe le teorie sulla vita del nostro pianeta: Panspermia e Zuppa Primordiale, combinandole e tracimandole l’una nell’altra. Non appena è stata definita la seconda sede di Sant’Angelo, è sorta la questione della materialità, delle dimensioni e della forma dell’installazione: i limiti fisici di questo spazio, i suoi dipinti storici e il suo design – tutto ciò ha influenzato le mie scelte. La posizione certa delle barre metalliche di sostegno nello spazio sovrastante, la loro altezza di didici metri sopra il pavimento storico hanno portato alla decisione di utilizzare cinquanta sculture traslucide di colore rosa neon molto chiaro, che avrei dovuto installare, combinare e collegare in un solo giorno.
Il dialogo tra le due installazioni si potrebbe descrivere come un’imminenza trascendentale delle scienze biologiche in un’utopia bioetica. Entrambe le opere rappresentano un imperativo teleologico, un invito all’illuminazione etica in cui le sfide e le possibilità del progresso biotecnologico convergono con le minacce etiche della responsabilità morale e della solidarietà e dipendenza inter-specie. Potrebbe essere percepito come una sintesi dialettica di etica di egualitarismo e altruismo biocentrico nel campo di ricerca dell’ingegneria del paradiso.
Attraverso la tua pratica artistica rifletti sugli sviluppi che le forme di vita così come le conosciamo avranno in un futuro non così lontano. In che modo pensi organico e sintetico possano intrecciarsi fino al punto di non essere più distinguibili l’uno dall’altro? Questa relazione in che modo è traducibile attraverso il tuo lavoro?
Dal mio punto di vista, con l’aumento della potenza di calcolo, lo sviluppo dei materiali sintetici andrà verso organismi più complessi. Questo lo possiamo vedere attraverso le nano-scienze: sono emersi nuovi campi come la bio-nanotecnologia, la viro-nanoterapia. La tendenza delle nanoscienze è quella di ispirarsi ai sistemi biologici. Questo approccio, spesso definito “bioispirato” o “biomimetico”, comporta l’imitazione della nanotecnologia, prevede l’imitazione delle strutture, dei processi e delle funzioni presenti negli organismi viventi su scala nanometrica: nanoparticelle auto assemblanti che imitano le strutture gerarchiche delle proteine. Le nanoparticelle possono essere progettate per colpire cellule o tessuti specifici, come gli anticorpi nel sistema immunitario; nanobot che possono svolgere compiti a livello cellulare o molecolare, ispirandosi a quelli biologici come i batteri o i macchinari cellulari. Questi progressi sono inarrestabili come la vita stessa e si svilupperanno ulteriormente verso la massima complessità possibile, verso la creazione di nuovi modelli di cellule e di esseri organici. Questi nuovi esseri, il loro impatto sulla nostra biologia, sull’ecosfera e sulla bioetica sono il campo del mio interesse e della mia contemplazione. Il mio intento è quello di mostrare non solo le minacce di una possibile bio-distopia, ma anche le possibilità utopiche di ricompensare i danni che causiamo al nostro pianeta. La costante decimazione di altre specie potrebbe essere fermata attraverso la ricostruzione e forse anche l’introduzione di una nuova diversità.
Sì, a volte, penso alle possibilità di vita su altri pianeti. L’homo sapiens è il predatore più pericoloso, aggressivo e crudele di questa galassia, forse dovrebbe pensare a una ricalibrazione avanzata della propria genetica verso la gentilezza ed eudemonia. Lenti cambiamenti epigenetici attraverso l’etica sociale e l’educazione empatica potrebbero non essere sufficienti per evitare il peggio.
Ti andrebbe di approfondire il concetto di “Bioismo”, termine che hai coniato per definire parte della tua produzione artistica?
Più di due decenni fa ho deciso di sviluppare il “Bioismo” come una sorta di quadro biofuturistico che potesse combinare la bioestetica del futuro con la bioetica e la filosofia dell’ingegneria paradisiaca. Ci sto ancora lavorando e miglioro ogni anno questa dichiarazione: considero ogni mia opera come un essere vivente sconosciuto. Il “Bioismo” estende la vita a soggetti senza vita. Personalmente, immagino un futuro in cui – sulla scia di una rivoluzione biologica – abiteremo in case viventi ed esploreremo lo spazio in ambienti viventi. Tuttavia, la prospettiva più affascinante è la capacità degli artisti di creare nuove sostanze viventi, costruendo così forme di vita avanzate e non sofferenti. L’atto artistico acquisterà il senso pratico della formazione della vita. I musei d’arte del futuro potrebbero trasformarsi in giardini zoologici, gallerie in fondi per la diversità della vita e studi in laboratori di complessità biologica. Il “Bioismo” aspira a diffondere nuove forme di vita illimitate in tutto l’universo. Il “Bioismo” è parte integrante dell’abolizionismo bioetico. Il “Bioismo” non si limita ad abolire la sofferenza, ma espande gli orizzonti della coscienza e dell’empatia. Il “Bioismo” è un invito a partecipare all’evoluzione avanzata.
Grazie ai tuoi lavori hai spesso parlato di eudemonismo – dottrina che riconosce come legittima l’aspirazione dell’uomo alla felicità – quanto pensi sia complicato poter parlare di effettiva felicità in un contesto così complicato come quello contemporaneo?
Non è facile pensare al benessere generale della nostra e delle altre specie mentre parenti e amici si precipitano quotidianamente nei rifugi antiatomici, mentre persone, animali e piante vengono quotidianamente uccisi e feriti senza motivo – solo a causa della cecità ideologica, dell’aggressività dogmatica e della stupida crudeltà. Le realtà quotidiane delle zone di guerra sono: insicurezza, perdita, sfollamento e lo spettro traumatico della violenza. L’esposizione del cervello a minacce costanti regola i percorsi del sistema nervoso, portando inevitabilmente a un aumento dell’allerta e dell’ansia – uno stato contrario alla tranquillità necessaria per la contemplazione e il godimento della filosofia eudemonistica. Le paure alimentate dalla propaganda disumanizzano letteralmente le persone; rendono in qualche modo legittimi i peggiori crimini di guerra. In un contesto di conflitto in corso, si potrebbe sostenere che gli abitanti si adattino a un livello di base di angoscia o di diminuzione del benessere, che ricalibra le aspettative e l’esperienza di felicità. Così, la ricerca della felicità non è solo messa in discussione, ma radicalmente ridefinita, mescolata e trascurata in tempi di guerra.
In qualità di artista ucraino che esamina l’intersezione eudaimonea e il contesto contemporaneo di conflitto, sostengo onestamente la necessità di una ricerca più ampia sull’aggressività sociale, cambiando i nostri istituti, per esempio. Abbiamo bisogno di una ricerca seria sulla gentilezza e sull’empatia, non di nuovi sistemi d’arma. Per essere veramente felici e appagati, le persone del futuro dovrebbero avere una comprensione migliore della neurobiologia e, molto probabilmente, un miglioramento attraverso la genetica avanzata.