Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno 20 e 21
È Taito l’ultima tappa del nostro viaggio. Non l’ho ancora esplorata a dovere, troppo impegnata a partecipare a forse-appuntamenti e a girovagare per Yanaka, che ho già ribadito essere una delle zone di Tokyo che amo di più – mi sono persa fra Nippori e il cimitero e mi sono ritrovata in un mercato dell’usato dove ho acquistato tre kimono, a occhio e croce degli anni 80-90, non della migliore qualità ma per il prezzo pagato vanno più che bene. Il venditore non parla inglese, Google Maps si impalla, internet mi abbandona e il traduttore segue a ruota – insomma, conduco tutta la trattativa in un misto di giapponese inventato, versi e gesti, il venditore annuisce, io annuisco, alla fine entrambi ci arrendiamo per stanchezza; sa il diavolo cosa ho comprato.
Ma ora voglio familiarizzare con il vicinato; dopo Yanaka, Nippori, Nishi-Nippori, lo zoo di Ueno con la statua della balena conficcata di testa nello spiazzo di ghiaia bianca e il parco adiacente con i cigni-pedalò e le ninfee semoventi, è ora di visitare finalmente Asakusa. Adesso che ci voglio andare, sembra introvabile: Google Maps è affidabile come un rabdomante e finisco a girare intorno al mercato che ho già visto e dove assisto mio malgrado alla versione giapponese del gioco delle tre carte, cioè senza imbrogli: alla fine, a giudicare dalle espressioni, vinci.
Alla fine riesco a imbroccare la strada, costeggio il lungofiume, dove incrocio una serie di aitanti ragazzi che portano i turisti in risciò correndo e cantando e arrivo alla mia metà: la distesa di templi ed edifici antichi di Asakusa, vestigia di una Tokyo prima di Tokyo, di un’epoca andata eppure non persa, e anche e soprattutto quartiere dei dolci (sì, c’è il melon pan). Sono discretamente affamata, come sempre da quando sono in Giappone; la mia attenzione passa con naturalezza dai tetti spioventi dei santuari agli spiedini di dango (gnocchi di riso dolci) in salsa mitarashi alternati ad altri dango accompagnati da fragole e cioccolato. Prendo anche un certo numero di daifuku, che non specificherò e che non è affatto superiore ai dieci, come alcuni calunniatori potrebbero sostenere; ordino un panino ripieno di qualcosa di fritto e una bibita al melone, che è un frutto che mi fa stare sempre male, ma tanto qui, a giudicare dai vari melon pan e altre melonesche creature, non sanno neanche come è fatto (la bibita infatti è verde menta e sa di fragola, ma è abbastanza buona).
Continuo a mangiare, mentre mi aggiro fra ristoranti affollatissimi, turisti (stranieri, genericamente asiatici e giapponesi) in kimono, negozi di giocattoli vintage – scorgo una specie di Cicciobello gorilla che spopolava nelle pubblicità dei Topolini di mia mamma -, caffetterie che spacciano macha in ogni forma, pancakes da asporto e gelato. Quando cominciano a farmi male i piedi, mi siedo da Makkudonarudo e approfitto della vetrata del piano superiore per osservare la gente che passa. Noto che la folla si è un po’ placata – posso provare a entrare negli edifici, anche se le scolaresche impazzano.
Sulla strada del ritorno, finisco di nuovo al cimitero di Yanaka. Sorge nel verde ed è come un grande giardino attraversato dalla strada principale – non sono l’unica a ricercarvi un po’ di frescura. Guardo le lapidi, ma non potendo leggere e non avendo con me la guida, mi diverto a tirare a indovinare. Lungo la via, si aprono negozietti antichi, pasticcerie, vetrine di vario genere – alcuni dei testimonial, curiosamente, sono peluches – e molti venditori possono essere visti, attraverso i vetri, all’opera durante la creazione.
Per una sorta di legge non scritta, mi perdo e quando ritrovo il cammino sono ormai dentro l’ennesimo quartiere a luci rosse (tanto per cambiare). Non batto ciglio, ci sono abituata.
Il parco di Ueno poi si rivela interessante. Nel corso della mia permanenza, posso dire senza iperboli di essere stata fermata con tentativi più o meno improbabili di rimorchio almeno quattro volte al giorno – tutti i giorni. Quella giornata non è da meno e nel lasso di tempo che va dalle 21.10 alle 22 (e che mi ci vuole per ritrovare il cammino) vengo fermata e invitata a fare qualunque tipo di attività da giapponesi non molto saldi sulle loro gambe e che, grazie al sakè, hanno dimenticato la loro proverbiale ritrosia.
[Sì, sono le nove di sera. No, non è presto, anzi, è abbastanza tardi. Le giornate giapponesi, mi pare di capire, si concludono ben prima di mezzanotte.]
Non solo non sono molesti, ma sono adorabili, gentilissimi e quando rifiuto le loro proposte mi lasciano subito andare, salutandomi con garbo; il che vuol dire che siamo rimasti solo in Italia a non capire il concetto di consenso.
Mentre commento con un amico l’accaduto per messaggio, vengo di nuovo fermata, questa volta da un ragazzo davvero bellissimo; la sua bellezza si attenua un po’ quando smonta dalla bicicletta e mi accorgo di superarlo di una testa buona, ma parla italiano e ci facciamo una bella chiacchierata, al termine della quale, non so perché, canto Oh quante volte o quante dai Capuleti e Montecchi. Segue applauso dagli ubriachi del parco, nascosti da qualche parte oltre i cespugli e poi torno verso il mio ryokan.

 

L’indomani è il mio ultimo giorno prima della partenza. Voglio tornare a Shinjuku, salutare Shibuya e i suoi disgraziati giovanotti collassati sui marciapiedi, il parco Yoyogi e poi guardare il panorama dalla torre del palazzo del governo, visto che – a differenza delle altre torri panoramiche – è gratis. Scendo con la metropolitana a Shinjuku e raggiungo il posto a piedi, ma prima sono costretta a una sosta al parco di Chuo, per riprendermi dal caldo. Faccio un venti minuti di coda, poi salgo in un ascensore che mi porta al quarantacinquesimo piano.
[È disponibile un solo osservatorio, perché l’altro è in restauro o qualcosa del genere.]
Da lì, posso finalmente osservare tutta la città e mi accorgo per la prima volta di quanto sia sconfinata. C’è un pianoforte, in mezzo alla sala e, mentre lo sguardo si perde lungo colline d’asfalto, qualcuno suona maldestramente le musiche di un film dello studio ghibli.
Ripenso alle cose viste e a quelle solo immaginate e si fondono in un unico ricordo – e in esso a commuovermi di più sono le strade di Tokyo, piene di grattacieli e schermi al plasma, ma anche di misteriosi boschi, rane, biciclette, negozi dalle pareti di legno e statue di tanuki e Buddha di pietra, disposti in fila nel verde quasi rurale, come numi tutelari o nani da giardino.