Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable
Giorno 5
Parlando di direzioni, bisogna ammetterlo: i giapponesi hanno un problema con le segnaletiche. O forse sono io che sono stordita? Il rischio, dobbiamo ammetterlo, c’è.
Prendiamo Shinjuku, per esempio (croce e delizia di questo mio soggiorno): una selva di cartelli, frecce, numeri, tabelloni, lucine lampeggianti, lucine meno lampeggianti, lucine assai stabili, e chi più ne ha, più ne metta. Per la Yamanote Line, bisogna raggiungere il binario 14-15, o così recitano le scritte appese al soffitto. Però la freccia che indica il cammino da seguire non è, come una tonta eurocentrica qual sono si aspetterebbe, a sinistra dell’indicazione, ma a destra – e dal momento che a ogni linea metropolitana segue sul cartellone una sfilza di altre linee metropolitane, una accanto all’altra, io seguo le frecce della linea a sinistra della mia, e indovinate un po’? Mi perdo.
(Qui gli accaniti lettori di manga sono avvantaggiati).
Ritrovata la strada, prendo un mezzo per arrivare a quello che mi dicono essere uno dei mercati delle pulci più vivi di Tokyo, sulla linea per Haneda, fermata Oikeburo. Ed è la verità, senonché per qualche ragione quel giorno hanno deciso di non farlo, come mi racconta (credo) un conducente di autobus, in giapponese. (Chissà se ho capito bene).
Non mi do per vinta, e dopo aver bighellonato nel giardino del birdwatching scorgendo solo, in lontananza, un piccione – che avrei potuto vedere tranquillamente sul marciapiede di fronte all’hotel – rimonto sulla gloriosa JR line e scendo ad Hamamatsucho. Cosa voglio visitare? E chi lo sa? La verità è che il nome mi faceva ridere, e quindi mi dirigo, piena di belle speranze, verso il tunnel che conduce all’uscita.
Ora, oltre a quanto già detto, c’è da aggiungere che in Giappone le segnaletiche sono un po’ un gioco di sopravvivenza in cui solo i migliori possono vincere. Il cartello ha una freccia verso destra? Non andate in quella direzione troppo spavaldi: a un certo punto vi ritroverete soli, molto meno baldanzosi, ben lontani dalla vostra meta e soprattutto senza nessuna freccia ad aiutarvi.
“Ma non era a destra?”, direte voi.
Al che io non posso far altro che scuotere il capo con tristezza, e lasciare che un giapponese esperto vi risponda: “Non hai visto il cartello sessantadue centimetri dopo, che indicava di svoltare poi subito a sinistra?”
“Non l’ho visto no”, ammettiamo in coro, e continuiamo il nostro cammino a testa bassa.
Quando, infiniti errori di percorso dopo, riesco finalmente a uscire dal tunnel (probabilmente la famosa espressione è ispirata a un uomo che tenta disperatamente di lasciare la fermata Hamamatsucho), mi rendo conto che ho fatto bene: mi trovo davanti i giardini di Kyu-Shiba-rikyu, un delizioso parco in stile giapponese incastonato fra i grattacieli. Un luogo di pace e serenità, con un ameno laghetto e ponticelli in legno. Ma bisogna stare attenti alle autorità locali, che non esitano a usare la forza per farsi rispettare, come segnalato dai cartelli: i corvi.
I corvi in Giappone sono un po’ come i gabbiani da noi: sono ovunque, anche dove non dovrebbero essere, e la fanno da padroni. Passeggiano con aria da bulli accanto ai passanti, gracchiandogli nelle orecchie qualcosa che somiglia molto a un programma elettorale, ed è possibile che, non appena avremo abbassato la guardia, prenderanno il potere e dirigeranno il Paese.
Per soli 300 yen, c’è la possibilità di fare un biglietto congiunto per un altro giardino a poca distanza: Hamarikyuteien. È molto più grande e uno dei lati costeggia il mare; somiglia a Kyu-Shiba-rikyu, ma in più si possono visitare anche alcune abitazioni tradizionali giapponesi poste lungo i sentieri alberati e in prossimità dei ponticelli. Inoltre, c’è una collinetta, il Fujimiyama, che è appena un rialzo ma è indicato con grande orgoglio, quindi ci salgo e osservo la natura intorno.
Sta per piovere, ma l’atmosfera è di perfetta quiete. Nonostante l’incombente presenza dei corvi, è evidente che sono le anatre ad avere più importanza, come testimonia il memoriale di cui allego fotografia per gli scettici.
La tempesta mi sorprende che sono ancora a interrogarmi sulle sorti dei pennuti defunti durante secoli di battute di caccia; mi riparo nella stazione JR, guardo l’orologio e scopro che ho ancora tempo prima di andare a trovare la mia amica pasticciera al suo negozio di amezaiku [caramelle decorate a forma di animali e altre cose deliziose], così mi dirigo verso nord.
Nella mia vita, si passa sempre impercettibilmente dall’essere molto in anticipo all’essere in atroce ritardo, e anche questa avventura non fa eccezione: mentre gongolo a Ueno fra una statua commemorativa, un santuario e gli alberi grondanti acqua che sembrano cantare la canzone della pioggia, mi accorgo che è ormai tardi, e corro di nuovo nella metropolitana, stavolta per scendere a Nishi-Nippori.
E qui accade il più grande infarto del viaggio: senza nessuna spiegazione, il mio costosissimo e, per regolamento, insostituibile JR pass si smagnetizza temporaneamente. Ancora non so che l’indomani l’allarme rientrerà, e farfuglio nel panico ai placidissimi impiegati JR, che non capiscono una parola però mi aprono i tornelli col sorriso. È una cosa meravigliosa e strana, qui in Giappone, la fiducia. Nessuno cerca di incastrati o si lascia contagiare dal sospetto. Sembrano tutti sempre convinti che tu stia dicendo la verità, e questo basta a placare la mia angoscia, almeno per il momento.
La pasticceria di Myo è dalle parti di Ginza, ma oltre, dove c’è un quartiere di nome Yanaka che è una Tokyo oltre la Tokyo: casette, orticelli, strade buie e silenziose dove si sentono di tanto in tanto canti di grilli, piccoli uccelli, cicale.
La guardo chiudere il negozio, mentre una pioggia lieve batte sui vetri, e gli animali di zucchero paiono bestiole magiche addormentate, in attesa dell’incantesimo che gli ridia vita.
Usciamo e andiamo al kaiten sushi, cioè quello col rullo. Si prende il numero come all’ufficio postale, e proprio come all’ufficio postale a un certo punto ci stufiamo di aspettare e decidiamo di andarcene, precisamente in un ristorante di yakitori e altre specialità piuttosto famoso a Tokyo: Torikizuko (è una catena, ce ne sono diversi in tutte le zone).
Qui scopro qualcosa di cui avevo già avuto il sospetto nelle varie izakaya: i giapponesi sono fondamentalmente degli educatissimi napoletani (conterranei, quindi posso dirlo a ragion veduta). Basta entrare in un ristorante, magari a ora di cena, per accorgersene: urla di benvenuto, urla per chiamare i camerieri, urla per rispondere ai richiami, tonnellate di cibo incredibilmente buono, ogni tanto si sentono rumori di tamburi (devo indagare). Myo ordina da uno schermo posto sul tavolo, un po’ di tutto, per farmi assaggiare: antipasto a base di alga che si tira su come il ramen (in realtà io non sono capace, ma noi crediamoci), riso coi gamberi, un pesce di nome Wanda da mangiare col daikon julienne, yakitori coi cuori di pollo, la cartilagine del gomito di qualcosa (o qualcuno, non ho appurato) impanata e fritta, una cosa che sembra purè, ma è fatta con un tubero che da noi non esiste (e nemmeno su Wikipedia italiana), spiedini di mochi ripieni – tutte cose che mi fanno esclamare “Mamma mia”, confermando l’idea internazionale che gli italiani siano come SuperMario.
E, soprattutto, un sacco di insalate, una delle quali mi mette assai in difficoltà – non so se sia l’emozione oppure se quel cavolo a fettine mi odiasse, perché gli ricordavo un altro cavolo che da piccolo gli faceva sempre lo sgambetto, fatto sta che sguscia via dalle mie bacchette per compiere un volo parabolico direttamente sulla mia gonna.
Ma ho troppa fame per badarci.
Sul ritorno, mentre camminiamo verso casa, incontriamo un ospite inatteso: nascosta nell’ombra di un giardino, una rana ci salta davanti ai piedi, ci guarda, se ne va.
Nota bene per la prossima volta: annotarsi i nomi di tutti i piatti, ed elencarli corredati di descrizione nelle puntate a venire.