Le tribolazioni di una svampita: @amlesuisonthetable

Giorno 4

Il mio giapponese non migliora, in compenso sto imparando a parlare un inglese più facile da comprendere attraverso il traduttore. A volte basta solo rivoltare la frase, ordinarla nel senso opposto a quello che ti verrebbe naturale.
Ed è un po’ così ovunque: al posto della destra, sulle scale mobili e nei sensi di percorrenza si tiene la sinistra; lo stesso vale per le corsie delle auto, e il volante non è a sinistra ma a destra; e nei musei per la prima volta non sbatto contro i visitatori (dato che procedo sempre nel senso inverso a quello comune) ma mi ritrovo insieme ai giapponesi a visitare le sale in senso antiorario, e chi fa il contrario rischia di conoscere la vita dei pittori a partire dalla loro morte (nota: per seguire un’amica, ho provato ad andare in senso orario, ed è stata un’esperienza fantastica – Picasso prima è morto, poi arrivava ex abrupto una donna che si suicidava; quindi scoprivamo che era la seconda moglie, e solo dopo ci davano il nome completo e ci dicevano che era la sua musa; poi spariva e comparivano sette altre donne con altrettante fasi pittoriche; e a un certo punto c’erano i disegni dell’infanzia di Picasso, cioè dei piccioni: praticamente la trama di un film di Lynch).
Considerazioni spaziali a parte, dedico le prime ore del mio quarto giorno a Tokyo al parco di Yoyogi, che è alla fermata Harajuku della Yamanote Line. Io sto facendo fruttare il mio JR pass e quindi non ho fatto l’abbonamento alla metropolitana di Tokyo, e per ora è un’ottima scelta. Una scelta che invece non è ottima è scendere per sbaglio a Yoyogi, la fermata prima; tanto, quanto può essere lontano il parco omonimo?
Molto. Percorro diverse strade, in salita, in discesa, finisco a casa di qualcuno, mi scuso e me ne vado, arrivo in un vicolo cieco e torno indietro. Google Maps funziona a tratti, con la precisione di un lanciatore di coltelli strabico. Siccome è un quartiere pieno di edifici bassi,  giardini e anche piccoli orti, sorge in me uno dei miei terrori irrazionali: e se ci fosse un rottweiler? Probabilmente giocherebbe con la sua pallina, direte voi.
Ma io mi trovo di fronte a un passaggio a livello di cui non capisco i segnali (qualcosa lampeggia, chissà che vuol dire) e fra il pericolo molto realistico di essere schiacciata da un treno e quello immaginario di essere sbranata da un cane, scelgo il rottweiler immaginario e attraverso di corsa i binari.
Sono ancora qui per raccontarlo; ma probabilmente anche l’incontro con l’inesistente cane da guardia di cui non si sentiva nemmeno il latrato avrebbe avuto lo stesso esito.

 

Il parco di Yoyogi è enorme e pieno di fiori e di formiche gigantesche, che coprono con facilità la lunghezza di un’intera unghia. Ho le cuffie nelle orecchie e ascolto Nagisa no Sinbad delle Pink Lady, canticchiando sovrappensiero “Anata wa sexy!” (Tu sei sexy!), il che sorprende un paio di giapponesi con le scarpe da corsa e il sudore che gli cola a ruscelli dalla fronte.
Tokyo è piena di sportivi: corridori di ogni età, marciatori, persone che giocano a calcio, ma anche amanti di sport tradizionali come il kendo (scherma giapponese) e le discipline di lotta. E, soprattutto, ciclisti.
Sembra coraggioso pensare di attraversare una città sconfinata come Tokyo in bicicletta, eppure in giro si vedono davvero poche auto. La maggior parte degli abitanti sceglie il trasporto pubblico o, quando può, la bicicletta.
È giugno, la stagione delle piogge e delle ortensie è ormai inoltrata. Eppure mi godo i miei venti minuti di sole fra i bambini che giocano e una microscopica squadra di calcio, nanerottoli fra i sei e gli otto anni, che si allena con il coach per migliorare la velocità. C’è un meraviglioso roseto, un giardino di ciliegi e uno di pruni, alcune fontane, un laghetto coi ponticelli.
Proprio accanto al parco c’è il Meiji-jingu, un santuario shintoista dedicato alle anime dell’Imperatore Mutsuhito e di sua moglie. Ma prima di andare dedico un lungo sguardo a una band di strada e soprattutto a un improvvisato ballerino, un signore sui quarant’anni con gli occhiali e il cappello, che saltella avanti e indietro in una coreografia scomposta ma in qualche modo riuscita.
Il Meiji-jingu è preceduto da una lunga fila di torii (portali) d’accesso, ma non appena arrivo al santuario vero e proprio, ecco che – per la seconda volta in pochi giorni – finisco per sbaglio in un matrimonio tradizionale. Mentre pondero se mettermi in fila per il goshuin e preparare i miei cinquecento yen o rimanere ad assistere (in disparte) al matrimonio, il pensiero di Lutero e della lotta alle investiture mi assale, e questo attacco di eurocentrismo senza senso e privo di alcuna correlazione con la circostanza mi spinge a spostarmi in un angolo e seguire la cerimonia.
Ci sono inchini, tamburi, e una lunga processione in fila di sposi, monaci e invitati, che passano sotto le porta del tempio per uscire. Le donne sono quasi tutte in kimono, e quello della sposa è completamente bianco, un colore che non mi aspettavo – conoscevo kimono da sposa con splendidi disegni di aironi su fondo arancione e oro, ma potrei sbagliarmi. Alla luce che filtra dalle nuvole sparse in cielo, noto la fitta trama di ricami, bianco su bianco, del suo abito.
Dal Meiji-jingu ritorno alla linea Yamanote, e attraverso la città fino alla stazione di Tokyo, a Chiyoda. Tokyo è così grande e storicamente stratificata che le sue zone vengono definite “città” Chiyoda è una di esse. Aspetto il mio amico Kentaro in un punto non ben definito della stazione, dal momento che lui ha sbagliato a scrivere l’uscita e io mi sento scortese a chiedere spiegazioni.
Per puro caso ci troviamo, e andiamo a cena, alle cinque e mezza di pomeriggio: non giudicatemi, siamo in Giappone e si fa come fanno i giapponesi, e in più io ho sempre fame, e anche lui. Ci sediamo in un vicolo con locali stile izakaya, dalle parti di Ginza.
Chiacchieriamo amabilmente e continuiamo a ordinare cibo, sashimi di pesce, alghe di forme strane (mai mangiate prima), fritture varie, riso saltato, altre cose che non so (come già accennato, non leggo i kanji e i nomi che pronuncia non li ho mai sentiti) e quando guardiamo l’orologio sono le ventidue. Mangiamo ininterrottamente da più di quattro ore. Ce ne andiamo, felici e un po’ vergognosi, passeggiamo un po’ intorno ai giardini vicino al palazzo imperiale, e tanto per cambiare apriamo la scatola di biscotti che gli ho regalato.
È proprio vero – certe unioni si fanno in cielo.