L’Iran è un Paese complesso, difficile da capire e di conseguenza da raccontare per chi non è nato lì e ne sa comprendere i cambiamenti, anche minimi, e le difficoltà, spesso grandi, della vita quotidiana dei più deboli, e degli emarginati, delle donne e dei bambini. Farnaz Damnabi, classe 1994, nata a Teheran, è una fotografa professionista, che ama profondamente il suo Paese e che tramite i suoi scatti cerca di raccontarlo, prestando attenzione a chi altrimenti non verrebbe notato e dando voce a agli inascoltati. Le sue foto sono un grido di indignazione e allo stesso tempo di fiducia, colpiscono per l’intensità e obbligano chi le guarda a vedere, a riflettere e a sperare.

 

29 ARTS IN PROGRESS presenta la mostra “UNVEILED”, ospitata fino al 28 luglio 2023 negli spazi della galleria di via San Vittore, 13, a Milano, un racconto vivido e reale dell’Iran contemporaneo, visto con gli occhi di una giovane donna. E, non a caso, tra le protagoniste assolute dei suoi scatti ci sono proprio le donne, che Farnaz Damnabi ritrae nella routine quotidiana, madri e lavoratrici, in una società patriarcale, che non ne riconosce l’uguaglianza e le cui leggi non le rende libere. La loro discriminazione nel mercato del lavoro e il mancato riconoscimento del loro silenzioso tanto quanto fondamentale contributo in settori portanti dell’economia e dell’artigianato iraniano, come la raccolta dello zafferano nei campi di Torbat Heydarieh o la produzione dei tappeti, sono fedelmente riportare da Farnaz Damnabi nella serie “Lost Paradise”. In queste immagini, le donne sono ritratte di spalle di fronte a un tradizionale tappeto persiano, con cui sembrano mimetizzarsi e quasi fondersi, metafora di un’invisibilità che non è solo ottica, ma anche sociale. Ma queste donne non si danno mai per vinte e il recente progetto “Be like a Butterfly” lo dimostra. Anche un cambiamento piccolo e impercettibile, come quello  che compiono le crisalidi diventando farfalle, ha valore e le nuove generazioni si muovono esattamente in questo modo, a piccoli passi, cercando di migliorare la propria condizione, come racconta la stessa Farnaz Damnabi nell’intervista sotto.

“Waste picker”, 2020, courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery

Nel racconto che fa della sua terra, Farnaz Damnabi documenta anche l’esperimento della nuova città creata a pochi chilometri da Teheran e pensata con l’intento di invertire la migrazione verso la capitale densamente popolata. Denominata, con triste ironia, Pardis, la costruzione massiva di nuove palazzine ha portato invece alla devastazione dell’ecosistema montano e alla distruzione dell’habitat naturale della zona, accrescendo ancor di più le difficoltà dei collegamenti con la capitale. Le immagini della Damnabi mostrano il desolante panorama da “paesaggio lunare” di quello che potremmo definire un paradiso negato, un quartiere dormitorio dove gli abitanti vivono o meglio sopravvivono, ghettizzati e privati dei più basilari servizi.

Cosa significa essere una donna in Iran oggi?
Rispetto ad altri Paesi, la vita delle donne iraniane è un po’ diversa: ma più la situazione si fa dura, più potenti diventano le persone.

Come hai vissuto ciò che è accaduto e sta accadendo nel tuo Paese?
Secondo me, l’Iran si trova in un periodo di transizione, rispetto al passato, la giovane generazione si sta impegnando per mettere in atto dei cambiamenti, seppur piccoli. Ci sono cambiamenti ogni giorno. È difficile prevederli e quando o dove oppure come avverranno. Allo stesso tempo, nessuno poteva aspettarsi le cose che sono successe in Iran.

Ti sei laureata in Graphic Design e hai avuto la possibilità di studiare, fino a poco tempo era normale farlo per una donna. Oggi cosa è cambiato? Avresti potuto farlo?
Sì, in Iran le donne possono accedere all’università e all’istruzione. Molte ragazze iraniane si sono laureate in università di alto livello. Alcuni genitori in piccole città forse impediscono ai loro figli di avere un’istruzione, ma questo non è basato sulle leggi iraniane. Fortunatamente, i miei genitori mi sostengono e mi spingono ad andare avanti.

“Surveillance”, 2019, courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery

Vivi e lavori a Teheran, dove sei nata, hai mai pensato di andare via?
Come iraniana, amo molto la mia città natale e ammiro le radici del mio Paese nella storia, nelle arti e nella cultura. Ma come fotografa, ho sempre sognato di essere una globetrotter e di viaggiare in ogni angolo del mondo per scoprire cose nuove. Proseguire la mia formazione in una famosa università del mondo è una cosa che sto cercando di realizzare.

Di cosa parlano le tue fotografie?
Come fotografa, cerco di catturare tutto, non voglio limitare me stessa. Ogni volta che sono dietro la macchina fotografica, mi sento molto meglio, parlando in generale noto più cose sulle donne, sui bambini, sull’ambiente. Dal mio punto di vista, sono questi i temi di cui dovremmo preoccuparci tutti di più.

La serie “Lost Paradise” mi ha colpito moltissimo. Ce ne parli?
Ho scattato queste foto nel santuario dell’Imam Reza a Mashad, la zona più religiosa dell’Iran. I tappeti sono stati usati come porte d’ingresso e ho chiesto alle donne in preghiera di stare in piedi davanti ad essi. Per me, la fusione tra i pattern dei chador e i tappeti era impressionante, come se le donne si mescolassero in questa Bellezza e diventassero invisibili.

Che significato ha il velo secondo te?
Penso che sia una questione personale e che ognuno debba prendere una propria decisione in merito: ad alcune persone piace il velo e ad altre no. La società sarà molto più bella quando persone con convinzioni diverse riusciranno a vivere insieme.