Francois Knoetze è uno scultore, performer e video artist particolarmente interessato alle connessioni tra storie sociali e cultura materiale. Le sue performance itineranti in costume e i suoi video sperimentali prendono di mira i campi di forza socio-spaziali che tentano di ordinare rigidamente il mondo contaminato; i suoi video creano ritratti narrativi dell’incertezza del sistema nervoso di una macchina digitale e globale sull’orlo del collasso. Knoetze è cofondatore della Lo-Def Film Factory. Con sede in Sudafrica, il lavoro del collettivo coinvolge la ricerca d’archivio, la drammaturgia e le strategie visive associate alla videoarte, al collage, all’installazione scultorea e alla realtà virtuale, votata all’esplorazione e creazione di uno spazio per la narrazione comunitaria collaborativa e sperimentale.
Ho avuto il piacere di osservare il tuo lavoro “Core Dump”, in mostra presso la Galleria Ramo a Como, e uno degli aspetti che più mi ha affascinato è il concetto di colonialismo digitale. Attraverso i tuoi video, hai messo in luce il circolo vizioso che nasce con l’estrazione delle materie prime, prosegue con la loro diffusione nel mondo e infine si conclude con l’abbandono dei prodotti tecnologici in disuso. Ti andrebbe di approfondire questo concetto?
Il mio lavoro volge lo sguardo all’ampio ecosistema tecnologico, quindi non solo al modo in cui noi interagiamo con i computer, ma anche al modo in cui interagiamo con la serie di siti interconnessi in cui le tecnologie vengono prodotte, consumate e scartate: dalle materie prime, al trasporto, al lavoro, ai rifiuti. Credo che se non saremo in grado di prendere in considerazione l’intero panorama di interdipendenze, rischieremo di cadere in una concezione tecno-utopistica della tecnologia. L’uso dei rifiuti elettronici nei miei costumi e nelle mie sculture ha sempre lo scopo di riportare le realtà materiali nello sguardo dello spettatore, ricordandoci che la tecnologia non è qualcosa di distaccato e immateriale conservato nel cloud o nei centri dati. Il mio interesse per l’interazione uomo-computer in relazione alla narrazione comunitaria partecipativa nasce dall’idea che le tecnologie accessibili possano essere un potente strumento per condividere le conoscenze e le storie locali. Nel 2018, ho iniziato a collaborare con la curatrice e critica Oulimata Gueye, la cui attenzione è rivolta alla tecnologia e all’arte africana. Lavorare con lei ha segnato un grande cambiamento nel mio lavoro, poiché ho iniziato ad affrontare più profondamente il regno della tecnologia e dei rifiuti elettronici. In “Core Dump” volevo esaminare quali accordi politici rendessero possibile l’estrazione di minerali e di terre rare in Africa centrale, il loro trasporto attraverso l’oceano verso la Cina, Europa e Stati Uniti sotto forma di dispositivi diversi, ed infine scaricati nuovamente sulla costa occidentale dell’Africa, finendo per circolare sotto forma di metalli pesanti nel flusso sanguigno delle persone che lavorano e vivono vicino a queste discariche. Una scena che credo rappresenti bene questo aspetto è quella di “Core Dump”: Dakar, dove un computer rotto esplode in faccia a un riparatore di elettronica. L’uomo è costretto a incorporare componenti della macchina nel suo corpo per rimanere in vita e diventa dipendente dalla macchina per sopravvivere. Ora è un misterioso assemblaggio tecno-corporeo di rifiuti elettronici, un cyborg che indossa una maschera africana. Fondendosi con la macchina, il suo corpo diventa vulnerabile alla dissoluzione delle categorie di razza, classe, nazione e genere. Questa ri-creazione è un processo di ingegneria consapevole e infinito, che diventa un modo per sfuggire alla prigionia della storia. È una relazione costruita e sostenuta a partire dalla tratta atlantica degli schiavi, che ha stabilito i confini tra razza e tecnologia, natura e civiltà, favorendo l’istituzione di un sistema duraturo di sfruttamento e controllo.
Il termine core dump si riferisce a un particolare stato della memoria di lavoro di un computer, con il quale, se qualcosa va storto, il computer è in grado di eseguire il debug e recuperare i dati. Perché il mondo ha bisogno di un debug? Che tipo di relazione sussiste tra tecnologia e colonialismo?
Quando penso alla cibernetica, penso a un sistema ricorrente che continua a ripetersi e a girare a spirale su se stesso, a meno che non si cambino i valori di input. Il lavoro esamina alcune delle preoccupazioni contemporanee della cultura materiale e tecnologica, prestando particolare attenzione alla tecnologia nel contesto del sud del mondo. Volgendo il mio sguardo sul tema dell’estrazione, sono particolarmente interessato ad una visione della tecnologia che tenga conto di sistemi più ampi. Lavoro molto con i rifiuti elettronici e ritengo che l’elettronica non sia solo materia, bensì un archivio di contesti economici, culturali e politici. Vediamo in atto questi modelli estrattivi nei sistemi tecnologici in tutta l’Africa come data mining, sorveglianza ed egemonia prevalente delle aziende tecnologiche statunitensi. Il fatto che pratiche di colonizzazione digitale siano incorporate in questi sistemi a livello strutturale significa che il ciclo di estrazione dall’Africa e di scarico su di essa continuerà inesorabilmente.
I video di “Core Dump” sono stati girati in momenti diversi della tua pratica artistica e in quattro contesti diversi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, trattano temi molto vicini, alcuni sono direttamente collegati tra loro. In che modo? E quali differenze presentano?
La serie di quattro video, ambientati a Dakar, Kinshasa, Shenzhen e New York, presenta personaggi che rappresentano il profondo radicamento dell’industria tecnologica digitale con il tecno-colonialismo e il capitalismo. Per core dump, in termini cibernetici, si intende lo stato registrato della memoria di lavoro di un computer, da recuperare dopo un crash. La serie analizza come i banchi di memoria della nostra Terra digitale cancellino o contengano le modalità secondo cui l’era dell’informazione è vicina a storie di controllo coloniale, supremazia bianca ed estrazione di risorse. Nel capitolo di Core Dump dedicato a Shenzhen, ho tracciato dei collegamenti tra le reti suicide attaccate alle navi degli schiavi europei e le reti installate più recentemente nelle fabbriche di elettronica di Shenzhen, dopo che molti dipendenti hanno tentato di suicidarsi dalle finestre di questi alti edifici industriali. Le infrastrutture coloniali sono costruite con lo scopo di estrarre quante più risorse possibili nel modo più rapido ed economico possibile. Nel capitolo newyorkese di “Core Dump”, il personaggio centrale è modellato sull’iconico robot della Boston Dynamics “Big Dog”. Dopo essere fuggito dal laboratorio, viene tagliato in due dalle porte di ingresso di un treno della metropolitana, dando vita a un viaggio parallelo attraverso New York. Il suo viaggio termina quando una metà viene scaricata a Dakar in mezzo ad un carico di rifiuti elettronici, portando la serie ad un punto di svolta: le due parti si affrontano da sponde opposte dell’Atlantico.
Anche il tuo precedente lavoro, “Cape Mongo”, presenta personaggi particolari, proprio come in “Core Dump”. Da dove nasce l’esigenza di esprimersi attraverso questi attori muti? Qual è il rapporto tra scultura, video e performance nelle tue opere?
La rappresentazione di questi personaggi in Mongo è un processo di acquiescenza nei confronti di grandi contraddizioni. I personaggi sono l’incarnazione delle forze di movimento e di contenimento. Sono allo stesso tempo agenti mitologici e fittizi del potere e strumenti utili a rivelare la costruzione del potere; ci avvicinano alle catene di approvvigionamento associate all’esistenza materiale delle merci che consumiamo, riproducendo contemporaneamente questa distanza attraverso la superficie della maschera. Le performance esplorano le figure archetipiche del “vagabondo urbano” e del “raccoglitore di stracci” come incarnazione delle contraddizioni delle condizioni urbane in evoluzione: una persona immersa nella folla, ma alienata da essa. I personaggi di Cape Mongo sono l’incarnazione sia del mio coinvolgimento che del mio distacco dal paesaggio urbano di Città del Capo. Attaccando fisicamente questi oggetti al mio corpo, rivisitando gli spazi dei loro cicli di vita immaginari e impegnandomi con questi spazi attraverso performance improvvisate, spero di esplorare i tipi di relazioni sociali e gli scambi di merci che sono impliciti nei vari oggetti che compongono gli abiti scultorei. Spero che, ripercorrendo i viaggi degli oggetti che sono stati scartati e dimenticati, io sia in grado un giorno di iniziare ad annullare alcune delle omissioni che costantemente occultano la storia della città.