Figli della discordia, primogeniti della rivoluzione generazionale, ma sopratutto abitanti della terra di mezzo, quella che si estende tra il giorno e la notte, in un crepuscolo di infinite possibilità, i Club Kids sono stati questo: giovani rivendicatori della libertà d’espressione. Nati in una Mela che rapidamente si ingrandiva, e parallelamente apriva le sue porte a nuovi viandanti provenienti da tutta l’America e fuori, i Club Kids nascono e crescono sulle gradinate dei night newyorkesi della fine degli anni ’80. Assordati dalla musica vogue, imparano da subito che esprimere se stessi è una scelta coraggiosa, ma che vale la pena di fare. Guidati da esempi come Madonna e Prince, riscoprono nuove divinità pagane che sembrano prendere vita e uscire dai poster appesi in camera, scoprendo che i loro miti non sono tanto delle persone quanto degli ideali da perseguire.
I Club Kids sono la nuova forma di aggregazione, capaci di abbattere lo stereotipo di genere, ci pongono l’interrogativo se l’Io abbia realmente un sesso. Sul New York Magazine del 1988, che per primo coniò il nome del nuovo movimento teen, vennero definiti provocatori, perché portarono alla luce nuovi interrogativi sociali, dettati anche dalle crisi trascinate dal tempo, come l’AIDS e le guerre transoceaniche che nella loro ignoranza e futilità avevano creato crepe nelle giovani menti dei sedicenni di allora.
Il desiderio di evasione ha permesso ai Club Kids di riscoprire il dancefloor notturno rivalutandolo. Non era più una camera abbastanza grande da ospitare centinaia di persone con musica sparata da casse bidimensionali, ma un luogo dove essere, un ballo in maschera dove esprimersi, un tempio dove la musica, la moda e il ballo erano un’inno all’Io recondito, nascosto sotto impalcature sociali arrugginite. Una sorta di teatro pirandelliano dove non esistono personaggi inventati, ma solo storie di persone che vogliono essere raccontate in abiti attillati, stampe animalier e trasparenze che lasciano ben poco all’immaginazione, proprio lì dove immaginare voleva dire realmente essere.
La consacrazione di nuove cattedrali dove il dress code era l’esagerazione, la parola d’ordine il divertimento e dove ci si stordiva di desideri, tanto da sembrare possibile realizzarli, raggiunsero il loro massimo splendore nel tempo di una decade, ma lasciarono il segno nella storia. Insegnando a quest’ultima di non definirsi, ma di lasciarsi andare, di spogliarsi di appellativi scomodi e di smettere di essere controllata.
La domanda sorge spontanea, se questi kids ancora esistano, la risposta è si, solo mutati, al contrario dei codici che sono rimasti gli stessi, conservano la loro carica impattante, ma meno dissacrante. I club hanno superato la quarantaquattresima strada, giungendo nelle capitali europee, come Berlino, Parigi e Milano. Qui esistono locali che ricreano quell’ambiente ovattato, lontano da occhi indiscreti, dall’artificiosa spontaneità.
La storia è vittima e carnefice dei tempi, ma l’uomo può imparare a spogliarla dalla veste onnisciente, concedendogli un momento, in millenni, per sé: questa è la lezione trasmessa da questi giovani anarchici, quasi a ricordare che i figli dei club 90s non sono scomparsi, ma mutati negli anni e come dei migranti, con le gambe tremolanti e gli occhi ricchi di sogni, hanno preso la prima nave alla volta delle americhe della libertà, approdando su terre inimmaginabili.
photographed by Benjamin Vitti
styling and creative direction Camilla Battistella
muah Paola Crudo
styling ass. Rosita Romor, Giovanni Aiuto, Martina Facchini
mua ass. Nicoletta Ambrosi
casting Rollover Milano
models Lilly Love, Elvis Furlan, Andy Savino, Paola Crudo, Riccardo Santalucia, Joseph Pugsley
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