In principio era il naso.

O forse, il principio era il naso. In ogni caso, avevamo nasi che cominciavano, e sembravano non voler finire mai. Li avevamo tutti, di qua e di là delle biforcazioni dell’albero genealogico, da parte di padre come di madre – per non parlare degli zii, dei nonni, dei trisavoli. Spuntavano, dalla polvere degli album di famiglia, certi nasi incredibili, inarrestabili, infiniti, ingiustamente camuffati sotto una divisa da aviatore o un elmetto da pompiere, o infagottati in cuffiette a pizzi e cappellini con la veletta, leniti forse dal bianco e nero, ma non per questo scalfiti nella loro perfettissima geometria – rilievi che sembravano attraversare la pellicola fotografica, affrancarsi dalle loro sfumature seppia ed uscire dall’istante immortalato per ricongiungersi al presente. Nasi che sfuggivano alle regole, nasi che scappavano dalle diapositive, nasi che attraversavano i secoli, nasi che si intrufolavano, si ribellavano, si intromettevano, nasi che si ammutinavano, nasi che conquistavano: nasi che mettevano il naso dappertutto.

Non erano nasi sprezzanti, i nostri. Erano nasi di buon carattere; curiosi, questo sì, ma di manica larga, affabili persino. Una volta, alle scuole medie, mia madre – che ancora, per ovvie ragioni, non era mia madre – venne messa a sedere in pullman vicino a un ragazzo di un’altra classe, nella speranza che facessero amicizia.

La speranza si rivelò presto vana. Mamma taceva, il ragazzo taceva. Mamma taceva, il ragazzo taceva. Mamma taceva, il ragazzo taceva. Questa scena sarebbe potuta andare avanti all’infinito, senonché il ragazzo a un certo punto ruppe il silenzio e disse, Lo sai che hai veramente un naso come una pista d’atterraggio – che certo non era un buon inizio di conversazione, ma era pur sempre qualcosa, e più precisamente un’attestazione di appartenenza, una radice: tu sei quella col naso, della famiglia di quelli col naso.

E che naso, signori.

Il lato bizzarro è che anche mio padre, senza essere ancora di famiglia, senza essere stato seduto in pullman, senza neppure sentirsi dire che aveva un naso come una pista di atterraggio, ne aveva uno così. Forse anche peggio. Non un naso – una curva, una parabola, una rincorsa per il parapendio. E in più certe narici in fremito, con dei peluzzi che parevano vibrisse a fare la guardia agli antri ombrosi – due caverne dalle pareti mobili pronte ad aspirare senza pietà i malcapitati sul loro cammino, polvere e odori, biglie e fogliame, cartacce, quaderni, righelli, complementi di arredo, vetri oscuranti, donne, vecchi, bambini e persino qualche cane senza guinzaglio.

Avevamo, tutti, nasi che cominciavano, e sembravano non voler finire mai – e nelle loro peripezie, nei giri rocamboleschi, nelle curve improvvise e nei bitorzoli era scritta una sorta di destino: conosceremo tutto, di tutti, senza vergogna, andremo in giro per curiosità e per gusto, e guarderemo per il piacere di guardare; ameremo ogni libro, impareremo ogni nozione, ci ficcheremo in ogni intrepida, melmosa situazione – brameremo apprendere, e toccare con mano, ed avere familiarità con gli enigmi, e con i rompicapi; e saremo sempre in mezzo, sempre in piazza, a cercare gli incastri e a sciogliere i nodi, a creare problemi e a trovare soluzioni, ad ascoltare e a leggere le parole più nuove: le più difficili, si spera, o le più belle.