“È un’allegria che esce dalle pietre, vedi? La gente è stanca, si consuma, lavora. Le pietre no. Sono loro a reggere la città.”

I basoli sono lucidi di qualche segreta umidità. Riflettono i chiarori lunari, le insegne, il volto pallido della cattedrale. Nel silenzio della città morta, l’asfalto rilascia il suo respiro regolare. Nebbia. È poco oltre mezzanotte, eppure i passanti sono scomparsi. Rintanati, rientrati nei ranghi, giustamente: è mercoledì. Gli edifici intorno hanno occhi immensi, digrignati come denti. Dall’alto brillano le pupille dell’Arengario, gli iridi – i guizzi di luce di Fontana. Non ha torto il mio accompagnatore: io la sento, quest’allegrezza senza ragione, mi sale tra le gambe come un serpente, viene dal sottosuolo, dall’ossatura forte dei palazzi intonacati.

Sotto all’arco della galleria pare di essere nello stomaco di un pesce. La notte spegne i rumori. Ovattati vengono gli urli delle rare auto oltre piazza della Scala. Anche il teatro serra le palpebre al sonno. Indossa una cuffia da notte, pare: quella rotonda escrescenza bianca sopra il tetto. Cammino ancora, le scarpe fanno eco. Oltre lo scheletro delle architetture avverto un fremito. Il tonfo sordo di una cosa che accade.

“Ora arrivano. Gli abitanti, eccoli.”

Mi siedo ai piedi della piazza grande e guardo sorgere la nuova umanità. Sono sparite le giacche e cravatte, le ventiquattrore, le maniche di camicia. Niente più occhiali da sole, abiti della domenica, chitarre, sorrisi di denti. Niente fedeli alla messa, o gente che ha incontrato Gesù. Le insegne tremolano, i neon si fanno smorti. E tra gli sbuffi d’umido emergono, chi sulle gambe chi trascinando le braccia, coi carrellini che cigolano e le stampelle che battono al suolo, coi denti d’oro o di piombo o senza denti, gli accattoni e gli invalidi del lavoro e gli storpi dalla nascita e i vagabondi e i perseguitati e i sognatori persi nel loro sogno, e i pazzi semplici, senza altra specializzazione. I venditori di chincaglieria e gli zingari cascano per terra le loro borse, contano le monete della giornata, seduti tra fisarmoniche e casse stereo con la base orchestrale della Vie en Rose.

“Meno male che son venuti. Era un tale strazio vedere la città deserta. Invece questi è un piacere osservarli all’opera, studiarne i costumi. Sono interessanti. Sembrerebbe un enorme sepolcreto, senza.”

“Senza chi?”

Un ambulante carico di molle fluorescenti e boomerang-paracadute, Artaserse ornato di lumini e sciarpe e collane, mi si fa vicino, vuol chiudere l’affare. Ma il mio accompagnatore muove la mano, gesticola a dire: no grazie.

“Gli abitanti. Parlo di questi, senza gambe, senza casa. Mi sembrano migliori, più adatti di quelli che girano di giorno.”

Un uomo senza gambe scivola sullo skateboard che si è costruito. L’ho già visto, nelle giornate di pioggia occupa un angolo coperto della piazza. Legge il giornale, ama le novità. Controlla soprattutto il meteo.

“Gli abitanti, loro? Perché loro più degli altri?”

“I diurni – permettimi di chiamarli così, è più facile, e poi suona come un orario dei tram, ti piacciono i tram? – dicevo, i diurni sono così convulsi. Si muovono, si muovono, ma dove vanno? Nelle scatole. In principio sarà pure il verbo, ma la fine son sempre le scatole. Scatole organizzatissime, molto articolate. Ci sono scatole e dentro scatole e dentro scatole. Capitano pure le scatole semoventi, per raggiungere ogni piano, dove sta una scatola divisa in tante scatoline. E all’interno, delizioso come un ninnolo, grazioso come un cricetino, sta uno di voi. Inscatolato, diciamo. Egregiamente: fate un bel lavoro.”

Dalla galleria vengono suoni attutiti, come un tunnel di miniera. Le voci a poco a poco si spengono. Restano solo, immensi, i roseti di rose tagliate, da cui spuntano le estremità dei venditori.

“Camminiamo, ti va?”, il mio accompagnatore si intabarra, mi strattona. Lo seguo, diamo le spalle alla cattedrale. Coi piedi calciamo stupidamente i sanpietrini. Il duomo ci guarda con le sue ossa di pietra, la madonnina ritta conficcata nel cielo, a sorreggerlo tutto con le sue dita di zucchero.

“È la sola felicità rimasta, quella architettonica. Il resto, mangiato tutto, sparito. La gente, come si trascina, l’hai vista… Quelli di notte son quelli di notte, stanchi, distrutti. Quelli di giorno, tutti nelle scatole. Però le pietre continuano a ridere, vedi?, son trecento anni almeno che ridono, queste, e le altre anche di più… “

“Ridere, dici?”

“Ma sì, ma sì, io parlo per parlare. Son sassi. Non fossero felici, però, almeno loro, qua sarebbe già crollato tutto. La gente non sta in piedi, capisci. Semplicemente non sta in piedi. Non fossero felici i sassi, e il marmo, e questi dannati sanpietrini, verrebbe giù il finimondo.”

Sulle panchine intorno alla fontana si organizza varia umanità. Sonnecchiano quasi tutti. Un paio sembrano festeggiare qualcosa. Hanno una bottiglia in due, senza etichetta, e con le foglie e il tabacco raccolto da terra hanno assemblato una sigaretta intera. Le case intorno, le chiese spente e i negozi sprangati e le pareti rossastre dell’università sorridono con le loro facce di marmo. Sotto al tabellone fosforescente con gli indici di borsa, in una trapunta gialla con le margherite, dormono un uomo e un cane.

“Hanno inscatolato anche me a un certo punto”, riprende. “Mi sono, devo ammetterlo, un poco risentito: là nella cripta non si sta mica comodi. Però il mantello mi sta un incanto, resiste ai secoli.”

È la verità, anche se le tarme gli balzellano intorno, svolacchianti.

“Stai dicendo che la città è viva. Ma questo non ha senso. Le pietre tengono insieme tutto, possibile, possibilissimo. Che ridano, magari, meno. Ma anche prendendola così, queste son ossa, è uno scheletro, Non c’è vita in uno scheletro.”

“No?”

Mi guarda dalle sue orbite vuote. Forse l’ho offeso. Si aggiusta la mitra con aria modesta, coi metacarpi esposti acchiappa una tarma – forse vera forse immaginaria, un gesto per scacciare l’imbarazzo. Dal colonnato si sporge una statua, un vescovo col braccio alzato come a dire: io so. Sotto agli alberi semispogli, tra le tavolate di legno, si è insediata una minuscola città del sonno. Hanno steso dei teli, arricciato giornali a protezione, costruito qualcosa che somiglia a un forte con tessuti per campeggiatori. Esperti. Domani, prima dell’alba, sarà svanita.

“Prendiamo il tram! Io adoro i tram. Ti confesserò una cosa: non pago mai il biglietto. Però sto in piedi. Non occupo mica molto spazio. Arriva, arriva!”

Mi tira per un braccio, corre, saliamo un attimo prima che chiudano le porte. Dall’uscita. Ma è notte e siamo soli, a farci beffe delle regole di buona convivenza. Il tram scampanella a vuoto, per il solo piacere del suono.

Contrariamente a quanto detto, il mio accompagnatore si siede. Poggia la fronte d’osso al finestrino, le mani fino ai polsi chiuse nella tunica bianca ricamata. Estasiato. Dentro il vetro scorrono il fantasma di un galeone coi gerani ai balconi, il cavalcavia che passa sopra le rotaie, il bosco infinito nato dal ferro dei binari, tra i relitti di vagoni merci e gli scambi infeltriti di muffe e muschi e ruggini, gli hangar abbandonati con le loro fauci aperte sulla notte, a divorare quello che resta della città, finché qualcosa resta. Poi il buio comincia a farsi largo e rado, ad avere il volto dei grandi centri commerciali, dei caseggiati di periferia.

“Abbiamo perso la fermata, hai visto?”

Mi volto verso di lui, ma il posto è vuoto. Di fronte a me, un uomo che non ho visto salire. Ha gli occhiali, la fronte lucida e tonda, mi sorride senza molto comprendere.

“Con chi pensava di star parlando?”, mi chiede, gentile.

Mi guardo intorno. Il mio accompagnatore è scomparso.

“Sant’Ambrogio. Perché?”

 

 

Ida Amlesù
“Nacqui giovanissima. Vivo un po’ ovunque, scrivo, canto, parlo troppo e in sei lingue diverse. Mi piacciono: i russi, i libri, il mare, gli amori impossibili e l’opera. Sono ossessionata dalla bellezza. Nel 2017 è uscito il mio primo romanzo (‘Perdutamente, nottetempo’), e da allora non ho mai smesso di parlarne”.