La sua finestra illuminata è un occhio insonne, aperto sulla notte. Lo guardo muoversi, sigaretta dietro l’orecchio – o è una matita? una penna? – e la mano che gratta la testa. L’altra invece tiene un telefono. Sono le quattro, quasi l’alba. Ci siamo solo noi nell’oscurità che si crepa. Lui che parla al telefono, e io che impudica lo osservo. Si passa le dita sul naso, gli pizzica forse, e da dietro al vetro dice cose che non posso sentire.

C’è la via intera fra di noi. Un fiume d’asfalto, dove brillano le ultime luci notturne. Sui fanali delle auto abbandonate guizzano barbagli d’oro, d’azzurro e verde, e sembrano sguardi. Un passante, dondolando, le gambe traballanti, si allontana tenendo stretta una bottiglia. Come un trofeo. Ci dà la schiena, a me e a lui, l’ospite misterioso della mia notte.

Lui parla ancora. Ha qualcosa in quelle dita che mi affascina, le tormenta, le sfila dal palmo, le lascia fremere a mezz’aria, quasi suonasse un invisibile pianoforte. Non sento il suono, ma arrivo a vederle, quelle parole, che si intrecciano nel controluce della sua abat-jour e si fanno polvere, gli corrono tutt’intorno e dietro la testa riccia, si annidano nelle pieghe del colletto, e quando si toglie la maglietta cadono rimbalzando ai suoi piedi.

Lui litiga. Forse ama. Oppure odia. Sono due cose che in fondo si somigliano. Vedo una ciocca di capelli rialzata di forza da una mano esasperata. Gli occhi ora puntano un invisibile niente sul muro. Non ce la fa più, il mondo improvvisamente gli pare stanco. Anche lui non ha più voglia di combattere.

Apro la finestra, mi sporgo. Non c’è più il caldo assassino del giorno. La pelle nuda sfida una lieve brezza. Anche lui, per uno strano istinto, si affaccia. Tiene gli occhi incollati al davanzale. Poi, d’un tratto, guarda giù. Guardo giù anch’io: la strada è deserta. Ci sono ancora i riflessi delle insegne che si moltiplicano sulle lamiere delle auto. Il sole è quasi sorto però, e la luce ormai si infiltra senza vergogna, un’alba prepotente che ingoia le poche ombre rimaste.

Sollevo lo sguardo, lentamente. Anche lui. Anche tu. I nostri occhi si incrociano. Per un istante, non c’è più il telefono, la tristezza che chiama, l’universo impazzito nella sua corsa inarrestabile, i milioni di delusioni inevitabili che ci hanno resi quello che siamo – ci siamo solo io e te, in una bolla fragile e splendida, che può da un momento all’altro scoppiare.

In fondo alla strada, un grido. Distolgo lo sguardo, tu distogli il tuo, siamo tornati due estranei. Prima di chiudere la finestra, sporgo fuori la testa. Il grido si è spento, resta solo un mormorio. L’ubriaco è cascato per terra, ride. Non si è fatto niente.

Stringe ancora al petto la sua bottiglia, come un trofeo.

 

Ida Amlesù
“Nacqui giovanissima. Vivo un po’ ovunque, scrivo, canto, parlo troppo e in sei lingue diverse. Mi piacciono: i russi, i libri, il mare, gli amori impossibili e l’opera. Sono ossessionata dalla bellezza. Nel 2017 è uscito il mio primo romanzo (‘Perdutamente, nottetempo’), e da allora non ho mai smesso di parlarne”.