Ho sempre odiato i compleanni. Quelli degli altri, passi, è ancora comprensibile – perché mi invitano, se già sanno che passerò il tempo a guardare la nuca di qualcuno, mai la faccia, sempre e solo la nuca, nella speranza che non si giri, così da sembrare intenta in un’umana interazione, mentre invece il mio pensiero è volato senza possibilità di ritorno a qualcosa di completamente diverso (un dettaglio vago della mia giornata, la psicologia delle folle di Le Bon, la scena finale del film Paprika che non ho tanto capito ma stavo lavando i piatti quindi non vale, persino le mimose lasciatemi sotto il banco da un innamorato, cento anni fa, in una giovinezza ormai irraggiungibile)? Qui le ragioni, si vede, abbondano. Non devo nemmeno stare  a spiegarle: nascono come funghi, si moltiplicano sulle pareti interne alla mia testa, quelle dove dovrebbero starci i pensieri, per intenderci; e si offrono da sé, per tutti i lettori, come un delizioso bouquet muschiato.

Ma i miei?

Sono loro quelli che odio di più, davvero. Ed è assurdo, lo so – e come ogni cosa assurda, nella sua incongruità, ha una logica. Anzitutto è un appuntamento che non ho preso io. Chi l’ha deciso che quel giorno io devo proprio compiere gli anni? E se volessi, invece, andare dal dentista? O iniziare un corso di karate – io gli anni li faccio ad agosto, ma tant’è, non c’è una stagione propizia al karate – o seppellirmi in una grotta angusta della Papuasia o inerpicarmi su una colonna nel deserto e fare lo stilita, giudicando tutti dall’alto del mio sedere scomodo sul marmo piatto di un capitello? (Le colonne degli stiliti hanno capitelli? Questa è un’altra cosa da appurare.)

E poi, mi sfugge perché io non possa oppormi. Sono o non sono l’interessata? Dovrei aver diritto a qualche tipo di recesso. Persino le polizze stipulate al telefono ne hanno uno. Eppure, schifosamente, continuo a compiere gli anni. Non c’è verso di farli smettere. Non basta evitare di diffondere la notizia. Io lo so, lo sento nelle vene che, a quanto raccontano i saggi del passato, mi tremano nei polsi: in ogni angolo del multiverso, in ognuna delle polverosissime anagrafi – le anagrafi sono, per loro stessa definizione, antiche e coperte di polvere secolare – un impiegato con la scriminatura e gli occhiali quadrati aggiungerà un altro anno al computo.

Non è che mi interessi molto invecchiare – nei due sensi possibili, non ci bado e inoltre non lo trovo interessante. Ho recentemente accettato di non potermici ribellare (nemmeno qui esiste il diritto al recesso, il che rende le polizze stipulate al telefono un esempio sempre più interessante di utopia, qualcosa che somiglia paurosamente al subconscio popolato di sogni di Paprika, o almeno credo, visto che stavo lavando i piatti) , e sono passata da Mi rifiuto di invecchiare a Mi rifiuto di stare invecchiando – in questo gerundio si legge tutta la rassegnazione del caso, il tempo scorre anche se lo prendo a testate, inutile accanirsi.

(In linea di massima, al mio compleanno, sono la prima ad andare a dormire. Lascio là gli invitati, della serie: divertitevi, e mi dirigo con fermezza verso l’amato cuscino.)

Inoltre, confido che prima o poi mi venga regalata dal cielo, fra paradisiache fanfare, la saggezza che mi manca (vale a dire tutta) o almeno la ragione, quella di cui mi fa ben sperare l’espressione età della ragione – il momento in cui, finalmente, tutti saranno d’accordo con me.

(Non ditemi che non funziona così: mi rendereste triste.)

Ma la data? Perché non può essere un altro giorno? Per esempio, un qualsiasi giovedì, ottobre, o il 1975? Questo mi ricorda un amico del mio bisnonno, uno che a quanto pare soleva esclamare con disperazione: E perché è Natale e non può essere Pasqua? Lui, raccontano, poi tirava le testate nel muro, il che non ci porta molto più avanti nella nostra analisi, ma nemmeno più indietro – direi semplicemente che ci porta da un’altra parte, ma dove, non lo so. (Dicono che il mio stile apre troppe parentesi, ma per spiegarvi che non è così dovrei aprire un’altra parentesi, e sarebbe un po’ tirarsi la zappa sui piedi.)

E la celebrazione, allora? Cosa dovrei fare? Perché quando la festa è tua, non c’è nuca che tenga; non importa se il finale di Paprika l’hai capito o meno, tu, con le persone, ci devi parlare. Come stai?, chiedono, e bisogna avere una risposta. Ho imparato, crescendo, che a nessuno davvero interessa come stai in quel preciso momento, ed è un sollievo, perché non lo so mai su due piedi, e mi toccherebbe prepararmi in anticipo, magari stilando una bella analisi probabilistica, una specie di previsione del tempo umorale in grado di preannunciare quale terrificante tornado emotivo si abbatterà dentro di me quel giorno. Ma, si sa, le previsioni non ci prendono mai, quindi a che servirebbe.

(Una volta, durante la festa del mio compleanno, mi hanno trovata in cucina, da sola, che leggevo la Settimana Enigmistica.)

Invece ora so che posso rispondere la frase di rito: sono stanca, un’affermazione che sembra soddisfare sempre le aspettative delle persone. Forse sono molto stanche anche loro, chissà, o forse la stanchezza è in sé qualcosa di apprezzabile. Qualcuno, magari, azzarda un: e come mai? Al che io asserisco: lavoro molto, e con questa sono sicura di averli conquistati.

(È questo che significa raggiungere finalmente l’età della ragione – sapere sempre cosa rispondere?)

Ma anche così, il tempo che scorre non si può interrompere, tuttalpiù, se si vuole, si può celebrare; e per quante parentesi io metta, per quanti incisi io apra, non riesco a frenarlo neanche di un secondo nella sua inarrestabile cavalcata. Però mi piace il ruolo di spettatrice: seduta sulla riva di un fiume che contiene tutti i miei ricordi, e il presente, pure, vivo e guizzante come un branco di pesci. Pieno di volti, oggetti, luoghi, arruffati dalla corrente, aggrovigliati gli uni agli altri, mentre compongono le immagini della mia vita in un meraviglioso caos.