Max Mondini, artista classe 1990 che lavora tra Milano e Civitella in Val di Chiana, attraverso una pratica multidisciplinare che indaga simultaneamente presente e passato, si sofferma sul concetto stesso di opera d’arte.

Mi piacerebbe iniziare il nostro dialogo approfondendo uno dei tuoi ultimi progetti, realizzato in occasione dell’esposizione presso gli spazi dell’Ex Macello di Prato…
L’opera che ho presentato negli spazi di Estuario Project Space è nata dalla volontà di realizzare un lavoro che dialogasse con l’architettura e con la storia del luogo, evitando di nascondere o alleggerire la carica violenta che quello spazio porta con sé intrinsecamente, ma al contrario accentuandola. Non è un caso che abbia deciso di esporre il mio lavoro fissandolo proprio sui ganci che in passato erano utilizzati per sezionare le carcasse di animali, ancora oggi ben visibili in questa architettura di carattere fortemente industriale.

Come nascono i pattern a cui dai vita attraverso la stampa digitale e perché scegli di esporre le tue opere sottoforma di origami?
Spesso realizzo grandi stampe in PVC partendo da immagini già esistenti, ad esempio in questo caso ho utilizzato immagini di mattatoi e allevamenti di animali, che successivamente rielaboro digitalmente e ripiego fino ad ottenere la forma di un origami. È un ragionamento attorno alle possibilità espositive di una superficie bidimensionale, cercando una struttura intrinseca alla stampa stessa.

Le tue opere, perciò, sono fortemente legate allo spazio in cui vengono esposte…
Ritengo che la vera sfida per un artista consista nel capire la sensibilità del luogo prima di scegliere in che direzione procedere con il proprio lavoro.

Le opere nascono in forma digitale, ma in mostra sono legate all’aspetto materico del supporto che ha appunto forma di un origami, per quale motivo?
L’elemento digitale comporta una possibilità che mi interessa affrontare, ma non credo sia sufficiente a soddisfare appieno i requisiti della mia ricerca; i miei lavori sono concepiti come veri e propri attivatori visivi, parlano al pensiero dell’osservatore, ma non lo indirizzano verso alcuna direzione. Molte opere appartenenti alla storia dell’arte sono legate all’idea di concetto, mentre rimango fermamente convinto che gli artisti debbano esprimersi attraverso le forme. Le stesse opere dell’artista concettuale per eccellenza, Joseph Kosuth, nascondono una forte carica estetica, è impossibile non ammetterlo. Una delle opere che ricordo con più piacere è “Essere Fiume” di Giuseppe Penone: l’artista si è servito di due grandi pietre trovate nei pressi di un fiume, una scolpita dal tempo e dagli agenti atmosferici, l’altra scavata in modo simile dall’artista che diventa così egli stesso fiume. L’attivatore, in questo caso, è il racconto dell’azione e delle domande che si è posto l’artista; se immaginiamo che quest’opera venga ritrovata fra centinaia di anni, molto probabilmente il significato del lavoro sarà pressoché indecifrabile. Ciò accade per tutte le opere contemporanee e non solo, con eccezione di quei lavori che presentano intrinsecamente nel proprio messaggio formale una carica di emotività e di tensione dell’artista stesso. Troppo spesso si tende a caricare l’opera di significati, senza tenere conto di ciò che è già contenuto all’interno del lavoro.

Suggerisci di fare un passo indietro?
Invito a riflettere su ciò che l’opera già ci comunica. L’arte non ha a che fare con la creazione di cultura, al contrario l’opera è in qualche modo il risultato finale di una cultura, dal momento che tutte le sue componenti spingono l’artista a creare l’opera.

Quindi le opere diventano una sorta di testimonianza storica?
Le opere d’arte sono frutto della necessità di un individuo che afferma la propria esistenza, che vuole lasciare traccia non solo della propria presenza, ma della propria sensibilità.

Questo avviene anche con le tue opere?
Come ho anticipato precedentemente, i miei lavori sono concepiti come attivatori, chi le guarda è invitato a riflettere, io non ho interesse a veicolare un ragionamento già concluso.

Il rischio è cadere nell’autoreferenzialità, sbaglio?
Sta proprio nella grandezza di un artista la capacità di riuscire a parlare ad un pubblico più ampio possibile. Il nostro mondo ha spesso più a che fare con il sentire che non con il capire. Il mio approccio nei confronti dell’arte contemporanea e dell’arte antica è il medesimo, proprio perché sono le stesse materie, cambia solo il contesto.

In conclusione, ti andrebbe di parlare della tua residenza presso Manifattura Tabacchi a Firenze?
Quella di Manifattura è stata un’esperienza fantastica: sei mesi di residenza d’artista trascorsi a Firenze durante il periodo di pandemia, in un edificio che presenta un’architettura razionalista di fine anni ’30, una struttura molto austera, rigida, senza alcun elemento curvo, ma allo stesso tempo molto elegante. Essendo il contesto fiorentino estremamente ricco dal punto di vista artistico e architettonico, ho deciso di lavorare inserendo elementi di matrice digitale, simultaneamente legati all’architettura dello spazio e al mondo della storia dell’arte. Ho creato una sorta di sfondato, di “sotto in su”, in un soffitto piatto, inserito in un pennacchio quattrocentesco in una parete priva di volta e un intradosso in un pilastro che non si sviluppava in nessun arco: non ho voluto intenzionalmente coprire l’architettura per poter instaurare un dialogo tra presente e passato, dando vita ad una tensione, che in questo caso consisteva nel mio attivatore visivo. Ancora una volta ho preferito attivare l’emotività senza dare alcuna risposta preconfezionata, semplicemente perché non ritengo sia lo scopo di un’opera d’arte.