Dal gorpcore (l’abbigliamento tipico da montagna ed escursionismo adattato alla città, la cosiddetta “estetica da scalata”) al workwear, la moda abbandona, ancora una volta, il suo stato elitario relegato alla sartorialità, per avvicinarsi all’indumento da lavoro. Una ricerca che si avvia dallo studio dell’uniforme della classe operaia dei primi anni ’20: tute larghe a più scomparti, dove l’utilità era il solo vezzo di un’immagine lavorativa nascosta dietro le spesse nubi della fabbrica. Non solo industriale, ma anche militare: la figura del workwear proviene in parte anche dal campo di battaglia della prima metà del ‘900, quando la divisa militare aveva una connotazione eroica e di gran valore, alla quale si guardava con ammirazione e che riprendeva, a sua volta, quella della cavalleria ottocentesca. Arricchita da fessure laterali, necessarie per portare con sé quante più provviste possibile e, nel mondo equestre, riempite di pesetti per bilanciarsi nel galoppo.

Quest’assenza di ricerca estetica dell’abito nato per rispondere alla pratica utilità affascina non poco le nuove generazioni e con le ultime collezioni in passerella tutti gli stereotipi classisti vengono abbattuti, rendendo il workwear la divisa di chiunque. Sono stati i b-boys, gli skater degli 80s, i primi ad introdurre questo nuovo concetto nella società, rendendolo inconsapevolmente immagine di quella vecchia gioventù che “surfava” nei parchi cittadini tra graffiti e musica pop.

E se ora, citando le tute multipocket della grigia industria e della street culture, il richiamo inevitabile è ai pantaloni cargo è perché questi ultimo sono il capo che più affascina le nuove direzioni creative. Ampi, a vita bassa e soprattutto modulabili nella loro versatilità, i pantaloni cargo incontrano le nuove richieste del mercato imperniato dal ritorno degli anni 2000. Un incontro che riporta nelle maison, per la F/W 22-23, l’idea di funzionalità.

C’è chi lo eleva come Versace, chi lo incorpora in un minimalismo imperante come Dion Lee e chi lo ha sempre avuto nell’archivio e ora lo riporta on stage come Blumarine: il cargo è il simbolo del progresso. Un mutamento che non si arresta allo stereotipo che lo relega all’industria, ma che si estende oltre l’immaginario del workwear, avvicinandosi sempre più alla street culture, come per Off-White. Uscite costruite su un’estetica a scomparto dove tutto è a portata di mano, in risposta al grido generazionale di pratica utilità: questo l’esperimento riuscito del collettivo che ormai da quasi un anno porta avanti la direzione creativa del suo fondatore Virgil Abloh, il quale, sin dagli esordi, è sempre stato capace di fare di necessità bellezza.

Chi resta fedele all’originale, come Blumarine, lo mantiene nella sua totalità: pantaloni lunghi, ampi e a mille scomparti. Nicola Brognano, direttore creativo della maison, sa che quando si tratta un capo della storia dell’abito è sempre giusto restituirne un’immagine complessiva, come ha spiegato lui stesso, seppur con un’immancabile tocco 00s. In satin e sempre a richiamo dei nostalgici 2000, da Versace, il cargo assume una veste preziosa, che ricorda le mise hollywoodiane delle icone dei y2k, come Paris Hilton, ospite e modella per una sera dello show.

E se le collezioni abbreviano sempre più le lunghezze con nuove proporzioni mini (in accordo ai dettami degli anni 2000), LaQuan Smith rende gli iconici cargo pants come una seconda pelle, accompagnati da micro top e maxi coat: tutto in pelle effetto used. Stesse proporzioni per Valentino, che li abbina a giacche dai colli sporgenti e accessori mini, in un equilibrio tra il minimalismo dei tagli ed il massimalismo del colore, il Pink PP.

Per Dsquared2, che attinge alle divise militari degli anni ’30 per presentare la sua idea di funzionalità a scomparti fatta pantalone, i cargo sono di casa, meglio detto d’archivio. Il brand svela una collezione revival degli iconici show degli anni 2015-2016, dove la malinconia del passato lascia spazio ad un presente in divenire e che per questo richiede funzionalità. Nascosti da camicie multicolor, i cargo si dimostrano necessari nel percorso di “riscoperta dei valori del brand”, come spiegano i fratelli Caten, che da anni ricercano nella praticità del quotidiano componenti di quello che loro stessi definiscono “easy-to-wear”: un ready-to-wear che agevola il movimento, allontanandosi dall’idea di una moda anti-praticità.

Anche Dior lo introduce, ma concettualmente, ricollegandosi al periodo delle donne lavoratrici che avevano temporaneamente preso il posto dell’uomo, impegnato al fronte, nell’industria dei primi del ‘900. Non funzionali, ma pur sempre cargo nell’idea, per Dior, l’importante è che il messaggio arrivi: quello di un’inarrestabile battaglia per l’emancipazione femminile che si serve dei cenni storici per avvalorarsi. Tra i più giovani, Sunnei, attento osservatori delle nuove generazioni, presenta la collezione in corsa, con pantaloni multipocket dal taglio sartoriale, adatti alla frenesia della metropoli. Il duo Rizzo-Messina ricrea uno show performance, dove tutto sembra prendere il volo, anche i multi scomparti dei cargo, come dei veri e propri “parachute” (in riferimento alla divisa dei paracadutisti).

Infine, Glenn Martens da Diesel, dove il workwear è di casa, tanto da estenderne l’estetica su ogni uscita della collezione, incluse quelle total denim dove i cargo sono protagonisti. Forse Diesel è il ritratto più fedele di questo richiamo, ma d’altronde è il brand per eccellenza delle cosiddette “succesfull people”, in grado di ricreare il successo nella proattività e nell’immediatezza del gesto: principi dell’abito da lavoro e degli stessi pantaloni cargo.

Dopo essere stati il simbolo dei lavoratori, i cargo sono ora l’emblema dei net-boys, i giovanissimi dell’ultima corrente digitale che riprende i cimeli del passato e li attualizza. Come? Semplicemente premendo su condividi.