Palazzo Spinola di Pellicceria, a Genova, fa capolino nella galleria omonima un dimesso abito cinquecentesco interamente in denim. Jeans, Genes, Genova, Denim, De Nîmes, giochi di parole del mondo francofono che portano la tela Genova ad essere il tessuto più utilizzato al mondo dal Cinquecento (per durare due o tre misere vite) a oggi (per durare due frettolose stagioni o forse meno) e toccare cifre inaudite, anche per il mondo benestante del passato che mai si sarebbe sognato di indossare un paio di jeans.

Cowboy, ferrovieri, contadini, operai sbarcavano il lunario con i loro jeans duri e durevoli, stinti e consumati, eterni. Oggi, le passerelle giocano al nuovo cowboy urbano, al comfort denim, che suona quasi come un ossimoro, e producono esemplari che creano il più grande business al mondo.

Non importa che li abbia acquistati a sette euro su Shein o siano la linea 70s di Levi’s, basta che stiano bene addosso per farti sentire meglio. È questo lo scopo dei jeans. Camicia, blazer oppure nudi, non importa, un bel paio di jeans risolverà tutto, sono come la mela nella nostra dieta quotidiana. Lungi dall’esser stucchevoli, semplicemente eterni, non nella durevolezza, questa volta, ma nel concetto portato all’estremo.

Incertezza ed euforia pre e post covid, ci dicono che abbiamo bisogno di un comfort trend, ma basta homewear, abbiamo bisogno di libertà, ma anche di famiglia e se i jeans sono eterni, il termine heritage è diventato una delle parole più banalmente rassicuranti nel mondo della moda, forse perché trasmette qualcosa che si è ereditato, che non si fa né pagare né studiare, sarà perché il successo del denim attuale non è che un reboot di vecchi echi, e perché jeans sommato a heritage fa subito 70s.

Sono proprio gli anni ’70 quelli che confermano il jeans come capo moda assoluto, sfugge alle regole dell’abbigliamento strutturato del boom economico e scoppia come fiori nei nostri cannoni ovunque: al lavoro, per le strade, nelle piazze e forse oggi, con meno disagi e più capricci, abbiamo bisogno di quella stessa libertà di amare così hippy, ma più fisica, quella tremenda di un biennio apatico di abbracci e amore svincolato.

L’evoluzione naturale di quest’onda anomala Settanta è stato approdare nei minimalisti Novanta. Minimalisti nel ricordo del decennio reaganiano che è stato sorvolato, ma non meno nell’evoluzione trucker e dress. Così, di nuovo, il giubbotto di jeans dal basso di una cabina di un viaggiatore notturno su gomma diventa una divisa total denim, sotto niente come Britney Spears o Drew Barrymore, meno male che i codini manga sono scomparsi, oppure con futuristici inserti e accenti metallici che non si sa ancora se sia il futuro o invece il nostro futuro visto al contrario, trent’anni fa come saremmo stati.

Il trucker si snaturalizza, inverte forma, si taglia, non patchwork, ma è una destrutturazione alla Margiela in cui perde ogni significato e diventa altro, una cappa, una tuta da astronauta, quasi un abito da sera. Lucido tecnico si confonde con la morbidezza di un jeans molto più attuale e si sforma per dare fluidità al corpo, non valorizzando le forme maschili o femminili, ma creando eleganza e luce.

 

Blumarine

Non ci sono choker al collo, tribali sull’avanbraccio e fermacapelli glitter, l’austerità green di questi anni ci sta educando ad un consumo consapevole. Di fatto, il jeans è il capo più inquinante del mondo e non possiamo giocarlo con quegli accessori di nylon e petrolio che ci piacevano tanto, per cui linee, strutture ormai vintage che ci fanno pensare alle spalline sottili di una Jennifer Aniston giovanissima, lasciano spazio a un look total, più raffinato, urla agli anni Novanta, ma lo fa in silenzio e in punta di piedi rientra nella tendenza.

Una declinazione infinita che con un chiasmo ci ributta negli anni Settanta per quei dettagli bon ton e richiama i tailleur squadrati di Jil Sander di fine millennio. I blazer non vengono destrutturati come il giubbotto di jeans, ma vivono di un sapore formale, che molto ha a che fare con Yves e l’aria severe delle sue mistress, ma ci da la boccata d’aria della ripresa, del mondo del lavoro che prosegue, di una voglia di sentirci protagoniste corteggiate. Il jeans non è strappato, scolorito e non fa rockstar, anzi è scivolato, perfetto nella sui fluidità e slancia.

La prospettiva del less is more è figlia del nostro tempo, ma, muovendoci in un mondo materico e materiale, a volte, sono le vendite a rendere la creatività schiava del mercato. Nel 2023, ci si aspetta che il mercato del denim arrivi a superare i 128 miliardi di dollari, inchiodando i blue-jeans come il capo più venduto al mondo. Prodotti nei Paesi in via di sviluppo, consumo a base d’acqua, coloranti a base di cianuro, sabbiatura, fibre stretch non fanno di loro il capo più etico e sostenibile, ma deve rendere più sostenibile il nostro acquisto e a volte il valore lo rende un piccolo gioiello. Ralph Lauren e Dolce&Gabbana hanno lavorato sul concetto della preziosità del jeans e hanno creato un valore aggiunto nel colore, nell’artigianato e nel sogno di scherzare e brillare au contraire di come va il mondo.