‘’Question Everything’’ si legge su bandiere a mezz’asta che sventolano feroci sulla testa di centinaia di giovani gremiti nelle piazze di tutto il mondo. Tra un silenzio solenne e pesanti sospiri ci si domanda di tutto, ogni particolare improvvisamente assume valore, ed il valore diventa consapevolezza di quello che si ha, che sia poco o tanto non importa, ognuno è proprietario, possedente anche di un solo avere. Quelle stesse domande che non hanno mai smesso di abitare in Virgil.

Virgil Abloh ha saputo reinterpretare i desideri di una generazione che vive tra l’ombra del vecchio secolo e gli albori di un nuovo millennio, appesantita dalla responsabilità di costruire un futuro luminoso e che lo sia di più di quello che ora è il presente. Proprio come si legge sulle sue prime giacche: “make a better future”, abile scrittore e ricamatore di storie fatte di abiti quotidiani (creatore del lifewear) spoglie di complicazioni che non sono mai appartenute al designer statunitense. Narrazioni tessili, che per quanto fantastiche, intrecciavano le loro radici tra la crudeltà del reale e la meraviglia della finzione, in un racconto che – aperte e chiuse virgolette – ha mostrato il significato di contaminazione, servendosi di un libretto delle istruzioni per poter costruire una vita contenta, ma sopratutto un’esistenza libera.

“A volte vivere spaventa, ma ancor di più spaventa non vivere”, disse il designer americano, che fino all’ultimo ha vissuto il suo male in silenzio e la sua vita, al contrario, gridando, con quella sua aura di leggerezza che traspariva in ogni sua apparizione. ‘’Virgil was here’’ ma anche altrove. Virgil era ovunque, dalla musica – i suoi memorabili dj-set che animavano gli after party post show – alla letteratura – quella americana romanzata, che gli piaceva tanto perché aveva il potere di indorarti la pillola del reale anche se dal sapore sgradevole. Una realtà amara che sotto un velo di fama e successo nasconde crepe su pareti “Off-White”, ovvero bianche, intonse, pure, ma che evidentemente era sempre più impegnativo pulire.

Virgil Abloh ha da subito aperto le porte del suo regno celeste come nella collezione di Louis Vuitton F/W 20, dove completi sartoriali dall’impronta utilitaria sfilano in un cielo celeste alla Magritte. Lo stesso spazio creativo che rivive nel testamento visivo dell’ultimo show F/W22, in un ballo sontuoso di abiti imponenti e volti noti: un tributo emozionante che rivela le smisurate dimensioni del suo campo d’azione e del suo lascito artistico. La mano tesa e lo sguardo ottimista, come l’espressione di un bambino, maturo per la sua età, che spiega in parole semplici la complessità che si porta dentro.

Un paio di forbici, un rocchetto di filo, chiavi e metro sono gli strumenti con i quali disegna un suo mondo, dove tutto si può costruire e per farlo non serve demolire, ma aggiungere, miscelare. Il risultato? Un luogo immaginario creato da Abloh per chiunque, dove ognuno ha le chiavi ed è custode del proprio angolo di paradiso.