“Questione di latitudine, non di lunghezza”, diceva un lungimirante Umberto Eco nel 2001 per definire la grande rivoluzione 60s delle cosiddette minigonne, che sembra non arrestarsi al fluire degli anni. Argomento di dibattito dal 1961, quando per prime apparirono sotto la firma della capostipite Mary Quant, divennero un’incognita sociale che spaccò il pubblico femminile in due: da una parte le pro, dall’altra le contro. Dalla teenager di Oxford Street alla femme fatale dei club londinesi, la minigonna era un simbolo di rivoluzione e di seduzione, ma allo stesso tempo di empowerment femminile senza eguali. Non leggevano, tra le strette righe dalla vita all’orlo, lo stesso messaggio le femministe che la intendevano come uno strumento al servizio dell’uomo e del suo “ruggente appetito sessuale”, come si leggeva nel Chicago Tribune di quegli anni. Di certo, però, lasciarono il segno sulle pagine bianche e nere di giornali che, dalla liberale America ad una più conservatrice Europa, si colorarono di divertimento ed apparente leggerezza.

Non importa quale sia la lunghezza (dai 25 ai 40cm), ma cosa significhi indossarla. Diana Vreeland, per prima, nel fintamente liberale mondo della moda, pose sotto l’attenzione dei suoi lettori questo YOUTHQUAKE (terremoto giovanile), con un servizio di 10 minigonne che mostravano non tanto la loro breve estensione, ma l’infinità delle gambe a lungo nascoste. Fu nuovo, fu diverso, e questo terremoto con epicentro la Swinging London non poteva più essere ignorato, e la terra tremava sotto lo sguardo puritano di un’arcaica forma di costume e contegno.

“Come si fa a dire coscia, cosce? È una parola brutta, volgare, con quel rotondo suono centrale, quella sibilante impudica, quella gonfia soddisfatta ottusità”, era questa la risposta su L’Espresso di Lietta Tornabuoni, analista del costume, in difficoltà nel definire questo nuovo trend e proprio in queste parole si intravede la libertà a lungo ricercata e al contempo nascosta dal patriarcato.

E adesso? Cosa significa indossare la minigonna? La risposta è multipla e, come si vede dalle passerelle della S/S 2022, la si può scomporre sotto un tema comune: la femminilità, la donna ed il suo complesso eros. Un sinonimo di ritrovata seduzione che non significa solo “mostrare”, ma sopratutto “rivendicare”, come affermano le gonne con strascico di Prada, senza tralasciare l’impattante potenza di un raso che, per quanto breve, sembra vestire la donna di una seduzione spogliata (come ribadito dal titolo della sfilata “Seduction stripped down”). E se per Prada la minigonna è uno strumento per raccontare la donna, per Blumarinel’icona dei 2000, della leggerezza, di anni dove sembrava tutto così semplice. Il direttore creativo Nicola Brognano ricrea quel mood portando on stage le minigonne velate accentuate dalla vita bassa che ricordano una Paris Hilton a Saint-Tropez ai tempi d’oro. Da icona ad alter-ego per Fendi, che vuole rivelarne una inaspettata forma di classe. Su sfondo bianco accenni di viola, verde e rosa attribuiscono alla minigonna una struttura formale, dall’aspetto pudico. Al contrario, Miu Miu esalta la minigonna che più mini di così non si può. Strappata, tagliata e poi ricucita su una donna indipendente, giovane, come una contemporanea ragazza del Piper Club, che reinterpreta l’uniforme collegiale conservatrice dell’infanzia alto borghese. Vicino a questo immaginario di rottura si impone quello di Versace, in un rave pop di minigonne, tenute insieme da spille oro (tributo all’iconico abito nero di Cindy Crawford) in un’illusoria precarietà.