È la vigilia, tardi.

Nella mia stanza, sola, provo a dormire.

La notte è una coperta di stelle caduta sulla città; eppure io devo essere rimasta coi piedi fuori, e nel sonno strofino le mani come davanti al caminetto, sognando caldarroste e stufette e incidenti transatlantici a latitudini artiche. Sono ancora fra le braccia di Morfeo, a spiegargli che su quella cavolo di porta c’era spazio per entrambi, sia Jack che Rose, senza che nessuno morisse assiderato, quando un refolo ghiacciato mi tira via dal sonno. Non è che proprio mi sveglio, ma nemmeno dormo.

 Ida,

sento chiamare.

Chi sarà?  Uno scherzo telefonico? Mia madre? La polizia? Il fantasma di nonna? La prima non può essere: dovrei stare al telefono. La polizia ti arresta sempre con nome e cognome, questo lo sanno tutti. Nonna mi chiamava Idarella; anche lei è esclusa. E mia madre russa con felicità e perizia nella stanza accanto. Nel dormiveglia, il dubbio rimane.

Ida,

di nuovo.

Ida.

Ida Ida Ida.

Chi è?, provo. Sto sognando, penso. Ma la mia bocca non sogna, la mia bocca parla, e ad alta voce. E così prende a parlarmi anche la pendola, che in realtà è solo un orologio a muro Ikea. Ma in questa notte magica non lo sa più e infatti ogni quindici minuti rintocca forte:

Din, don!

Un quarto, dico, la faccia nel cuscino.

Din, don!

Mezz’ora, dico, un velo di bava dalla bocca aperta.

Din, don!

E te vuo’ sta’ zitte!, grido alla pendola, che è solo un comune orologio confuso sulla propria identità.

È mezzanotte. Il freddo aumenta, si infila sotto al lenzuolo, fra le gambe e le braccia.

Se ti svegli, dice una voce seccata, io sarei il fantasma del Natale Passato.

In che senso, scusate? Gli occhi semichiusi, ragiono. Sono nel mio letto, gelido non perché il fuoco  sia stato spento dalla trasparente mano di uno spettro o perché le strade di Londra siano spazzate dal glaciale vento dicembrino. Sono solo in una casa napoletana, tutta spifferi e corridoi di corrente; il riscaldamento è un sogno, l’isolamento termico un’utopia.

Batto i denti, già pronta però a girarmi sull’altro lato, rannicchiata a gomitolo. Quando ecco che, seduto sulle mie ginocchia come un gatto, appare qualcosa che un gatto non è. È una specie di grosso pandoro umano, con sopracciglia e baffi e l’aria corrucciata. Mi schiaffeggia con mani di burro e zucchero, finché non mi risveglio del tutto.

D’accordo, dico. Mi alzo. Cosa mi devi mostrare?

Scellerata!, grida. Prima di tutto mettiti le pantofole, che sennò fai le orme a terra.

Ma perché, penso, qualcuno ha lavato i pavimenti? Mica ho i piedi di terra.

Meglio non fare storie, però; non voglio pigliarmi un altro schiaffone. Mi metto a sedere e il pandoro fantasma, che in realtà è un normale essere umano, solo lievemente rigonfio e guarnito di zucchero a velo, mormora lugubre:

Guarda le impronte che hai lasciato su questa Terra!

Non sta parlando di quelle volte che non ho messo le pantofole sul pavimento ancora bagnato. Di colpo la finestra si spalanca, la stanza è invasa di fogli, grandi e piccoli, che vorticano insieme in un turbine selvaggio. Mi girano intorno, mi finiscono negli occhi e nelle orecchie, come uno stormo di colibrì arrabbiati. Ne afferro uno fra le dita e capisco: sono i propositi degli anni scorsi.

Pietà!, imploro. Non farmeli vedere! Non voglio sapere quante volte ho fallito.

Ma il fantasma del pandoro passato, o come si chiama, è implacabile.

Sai quanti propositi hai fatto l’anno scorso, miserabile?

 Cento?, chiedo, tremando.

Lui scuote la testa.

Mille?

Scuote ancora la testa.

Scusa, di meno o di più?, domando. Non posso mica andare avanti per tentativi.

Uno, gorgoglia lugubre, la voce che si spande per la stanza come un’acqua scura. Uno solo.

 Be’, dai, onesto, dico. E com’è andato?

Ma non appena pronuncio la frase, quello comincia a ululare.

Un solo proposito, biascica il fantasma. Imparare a fare la spaccata. E ora mi chiedi pure com’è andata?

Ho i tendini corti, mi giustifico. Il tallone d’Achille, il gomito del tennista, qualcosa del genere.

Ma ci ho provato a lungo. Un mese, persino, forse due.

Magari più cinque o sei settimane. O tre o quattro.

Due settimane, facciamo. A giorni alterni però: sennò si rischia di farsi male.

Escludendo le domeniche. E i giorni durante la settimana, lì lavoro. Un paio di sabati.

Ma di quelli intensi: due ore tutte. Contando, è ovvio, il riscaldamento e il defaticamento.

Non sono mica un’irresponsabile. È che non sono dotata per gli sport.

Il fantasma si sta adirando, gonfia le guance che sanno di vaniglia. Forse vorrebbe prendersela con me, urlare; ma è morbido e fragrante, e siccome sono sveglia ma non troppo, non so come finisco col mangiarlo.

Sono pronta a tornare a letto, la pancia piena e un piumone di riserva. Il gelo non mi lascia. Mi pare che in casa quasi nevichi. Il comodino ha i piedi congelati, dalla testiera del letto spuntano ragnatele di ghiaccio; e cristalli azzurrini emergono da armadi e specchi e gelidi termosifoni.

E sul mio materasso, che salta con la gioia di un bambino, c’è un grosso cesto di vimini svasato e quasi chiuso in cima. Fa un rumore di ghiaia, come se fosse pieno. E si agita e ride, e io capisco che dev’essere il fantasma del Natale Presente.

Ida, dice, lo sai cosa ti aspetta ora?

 No, rispondo. Ma non posso avere anch’io i fantasmi in catene che mi mostrano la mia tomba ispirandomi a cambiare vita?

Ciascuno è punito come merita, risponde il cesto. Il Natale funziona così.

 Si capiscono tante cose, obietto.

Il sogno è il tuo, dice, e mi accorgo che anche questo fantasma ha volto umano. Se sogni  stupidaggini, prenditela con te stessa.

 Non ho il tempo di replicare che il fantasma vortica su se stesso, allungandosi a dismisura – e vedo che ha gambe, e braccia, e spalle, proprio come una persona. Poi, girando, torna della sua statura iniziale. Ma spalanca la bocca e dalle sue labbra schiuse si rovesciano centinaia, migliaia, milioni di dischetti di legno spessi un dito. Vedo che gli escono anche dagli occhi e dalle orecchie. In breve, la stanza è sommersa.

La tombola!, mugugna, con voce sepolcrale.

No!, grido. Ti prego!

Il fantasma ride istericamente. I dischetti gli escono dall’ugola che vibra ai suoni bassi e rochi della sua risata.

L’ultima volta che ho giocato, tento di convincerlo, ho fatto ambo, terno, quaterna e cinquina, e poi è scoppiata la pandemia!

Ancora dischetti. Si ammonticchiano davanti ai miei occhi, formando torri e palazzi e cattedrali. Ne prendo uno: è un numero della tombola, il sette. Ne afferro subito un altro: è il centoseimilaottocentodiciannove.

Con una mano di vimini, il fantasma del Natale Presente mi porge un pacco di cartelle. Trema di sadica gioia.

Fermo là, gli dico. Se proprio mi tocca, almeno controlla tutti i numeri sul tabellone.

Lo lascio che elenca anni di Cristo e morti che parlano e migliaia d’altri numeri su un grosso cartone disegnato, e vado in cucina. Non si dorme, stanotte, ormai si è capito. Tanto vale vedere se c’è qualcosa in tivù. Un programma sui matrimoni combinati, un vecchio cartone giapponese, un film di Capra con l’audio in ritardo – qualunque cosa.

Eppure, niente. A reti unificate, c’è solo uno strano bzzbzz, un formicolio dello schermo, un ondeggiare di saette e frequenze instabili. Poi ogni canale si sintonizza sullo stesso volto. Una faccia lunga, col naso curvo e due occhi brillanti che mi riempiono di sgomento. Sembra voler uscire dallo schermo. È cereo, e guarda me. Le sue labbra cercano di parlare…

Eh, no!, esclamo. Questo non è il fantasma del Natale futuro. Questo è l’Anno Che Verrà.

 

Dallo schermo, il fantasma scuote la sua faccia da Amadeus. Con le mani fa cenni disperati perché io non spenga il televisore. O forse vuole chiamare a cantare un ospite, chissà. Cerco il telecomando, premo tutti i tasti, lo spengo.

Mi risveglio con la testa sul tavolo della cucina. Sulla guancia ho degli struffoli attaccati. Ho dormito lì, dopo il mio giro sonnambulo della casa. Perché non c’è altra spiegazione, se non che io abbia dormito e sognato. È colpa della cena della vigilia, se quello che ho visto in sogno non ha senso.

Mi alzo. Sgranchisco le gambe intorpidite. Fa freddo: è un gelo tipico, da casa napoletana. Fuori il sole risplende tiepido, schiarando il cielo di un azzurro limpido e senza macchia.

Meglio andare a vestirmi e a portare gli auguri. Quest’anno voglio passarlo di più con la mia famiglia: non mi sottrarrò alle tombole, farò i propositi dell’anno nuovo, anche se non ne porterò a termine nessuno. E forse, se il cuore mi assiste e mi sento coraggiosa, non mi chiuderò in bagno con un libro mentre scocca la mezzanotte di Capodanno.

Era solo solo un sogno, ma forse un consiglio da darmi lo aveva.

Ed è allora che qualcosa mi punge sotto il piede. Sento la fitta frizzarmi fino in testa, il dolore cane che mi morde la pianta del piede. Mi chino, osservo.

Un numero della tombola.

E sopra recita: centosettantamilatrecentonove.