Nella casa crepitano le pareti. Il caldo sgretola la notte, ed essa cade in ombre che scivolano lungo le mura di quartiere, disegnando dinosauri, creature mostruose, galeoni. La sagoma di un cestino sul marciapiede è una medusa. E la casa è piccola e stretta, sa di sudore e di lavoro e di vita.

È casa di mia nonna. Di quello che c’era prima non è rimasto quasi niente. Non è rimasta lei. Ci sono ancora, però, le sue pellicce, e gli abiti estivi a fiori, e scarpe, e qualche foulard di seta. Dall’armadio pieno delle sue tracce viene un silenzio che assorda, il silenzio delle cose dimenticate. Tutti gli oggetti hanno un loro silenzio, ma la quiete di quelli abbandonati è diversa, più ovattata.

Però io lo so che è questione di attimi, che è ancora presto, la notte non è fonda. E quando sarà fonda quel silenzio si spegnerà e farà posto a un canto. E lascio che questo avvenga, mentre il buio mi avvolge e mi sale dalle narici in testa, come un grazioso lombrico; e quando apro gli occhi, tutto è nero, niente più si vede, e dalle ante di legno dell’armadio viene il rumore di una grande festa.

Comincia in sordina, come da lontano. Una tenue musica, piccola, gracchiante, uscita da qualche remoto grammofono a manovella. Sento le trombe di una sconquassata orchestra. Poi, lesti, i passi di danza, tacchi alti, scarpe di vernice. Una voce distante che grida, gelati! bibite! granite!, grida e grida e il suono si fa più intenso e mi invade come l’oscurità per le narici e mi tira, mi tira come un amo e ora sono in piedi e, sonnambula, scendo giù dal letto. E la musica si alza e si fa polka e si fa mazurka e si fa danza popolare, e i passi risuonano vicinissimi, vorticando stretti.

Un attimo di resipiscenza: sto sognando.

L’orecchio all’anta dell’armadio: la festa è là dietro. Non mi sbaglio. Non sogno. Con la mano che trema giro la chiave, sento lo scatto. E mentre l’anta si apre, una corrente mi investe, di luci e aromi e suoni che non posso ricordare, eppure ricordo, e tutto è familiare e amico e docile allo sguardo. Il cielo è d’oro e zaffiro, l’aria è una brezza lieve. C’è un odore buono, di fritto, di sugo. Una piazza si stende, punteggiata di lampade dai vetri arancioni. E ci sono le ghirlande appese, e le lanterne, e una pista da ballo, e tavolini, e balconi pieni di uomini e donne, e di bambini. Ma non ci sono i corpi dentro, no; ci sono solo gli abiti, i vestiti a fiori e le pellicce e le scarpe, e i vecchi rossetti e gli occhiali da sole che un tempo la facevano somigliare a Mina, disposti in bell’ordine, quasi fossero vivi. E anzi sono vivi, e guardano con soddisfazione dai balconi, e mangiano ai tavoli, e ordinano lo champagne o il caffè per digestivo, per sistemare stomaci che non hanno. I guanti si tengono per mano, accompagnando gonne a tubo e camicie a rouches in un casqué. Le scarpe girano sulla pista senza sosta, picchiando forte punte e tacchi. Da una finestra illuminata, degli occhiali da sole osservano i ballerini, mentre fra le braccia di una vestaglia a pois tengono avvolto come un infante un fagotto di scialli.

Sento il vociare allegro di quelle vite sospese – loro ricordano, loro sanno cose di lei che io non so, e forse, se sapessi parlargli, se potessi anch’io col mio corpo pieno entrare in quella piazza mi direbbero su di lei così tante parole, che lei ne tornerebbe in vita.

Faccio per parlare. Ma non ho voce; in gola mi muore il suono, e non so che dire. Rimango attonita nella confusione; quando di colpo sento una voce, di fuori:

Ciao Matilde! buona notte, tartaruga!

È un uomo dalla strada che ha parlato, salutandosi con l’amata bambina.

E le luci, nella piazza, si spengono. Scompare il mare su cui si affaccia il ristorante, e la pista da ballo, coi suoi palazzi di balconi intorno, viene inghiottita da un’oscurità di tarme e naftalina. I vestiti tornano a essere adagiati in pile.

È di nuovo la notte cittadina; di nuovo si sgretola, dal caldo, il cielo nero.

Solo lontano, sul fondo della strada, cigola il passo stanco dell’uomo.

Un nonno.